Nessuna pandemia nell’ultimo secolo (e ce ne sono state diverse) ha avuto gli effetti catastrofici della Covid-19: effetti letali sulla salute della popolazione, con conseguenze distruttive anche sull’economia, sull’istruzione, sulle comunicazioni, insomma su ogni aspetto della vita sociale.

La pandemia di Influenza “Spagnola” del 1918-19 fece certamente molte più vittime (si parla di un numero di 20, forse 50 milioni di morti), ma era un mondo completamente diverso, che usciva stremato da una guerra mondiale, con capacità assistenziali nemmeno lontanamente paragonabili a quelle odierne. Infatti la terza ondata – quella più letale – avvenne nell’inverno del 1919, quando alle polmoniti influenzali si aggiunsero le polmoniti batteriche, contro cui non erano ancora disponibili gli antibiotici.

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La domanda è quindi questa: perché un’epidemia infettiva nel terzo millennio, in società così avanzate come le nostre, ha avuto un effetto talmente devastante? Dal tipo di risposta che sapremo dare a questa domanda risiede la possibilità di attrezzarci per rispondere in maniera adeguata a futuri attacchi di questo genere.

Una risposta potrebbe essere questa: noi ci troviamo di fronte non a una “semplice” pandemia (ovvero a un’epidemia che coinvolge contemporaneamente più continenti), ma di fronte a una “sindemia”. Questo termine - la crasi delle parole sinergia, epidemia, pandemia ed endemia - è stato introdotto negli anni Novanta del secolo scorso da un antropologo medico, Merril Singer, per significare gli effetti negativi sulle persone e sull’intera società prodotta dall’interazione sinergica tra due o più malattie.

Oggi parliamo di “sindemia” perché ci troviamo di fronte all’interazione della pandemia infettiva, Covid-19, con un’altra pandemia altrettanto grave e distruttiva, anche se meno visibile e acuta, rappresentata dalla diffusione delle malattie croniche - dalle malattie cardiovascolari, ai tumori, passando per l’obesità e il diabete - che negli ultimi decenni (a partire dagli anni 80 del secolo scorso) ha registrato una formidabile accelerazione in tutte le parti del mondo.

Gli effetti distruttivi della “sindemia” – dell’interazione tra le due pandemie -  li abbiamo cominciati a conoscere fin dall’inizio della Covid-19 quando le statistiche ci dicevano che la mortalità si concentrava nei gruppi di popolazione affetti da malattie croniche. Le statistiche americane registravano significative differenze nella mortalità tra gli afroamericani e i bianchi, circa il doppio, perché i primi erano maggiormente colpiti da malattie croniche (e poi perché erano più esposti al contagio: facevano lavori più rischiosi, vivevano in abitazioni più affollate, etc). Si è scoperto allora che le due pandemie interagiscono entrambe su un substrato sociale di povertà e producono una terribile dilatazione delle diseguaglianze.  Quando avremo anche noi la possibilità di studiare la distribuzione della mortalità da Covid-19 tra le varie classi sociali, scopriremo che anche in Italia – come in Usa e anche in Gran Bretagna – le diseguaglianze nella salute si sono enormemente dilatate.

Gli effetti della “sindemia” sul sistema sanitario sono stati anch’essi subito ben visibili. Entrambe le epidemie, quella infettiva e quella della cronicità, richiedono una prima linea di difesa efficiente, in grado di mettere in atto interventi preventivi, di riconoscere tempestivamente i casi, di evitare gli aggravamenti e le complicazioni. Tutto ciò richiede un’assistenza territoriale attrezzata, con relativi servizi di prevenzione e sistemi di cure primarie, che negli anni è venuta progressivamente a mancare.  L’assenza di un filtro territoriale (cure primarie, medici di famiglia, servizi di igiene pubblica) che identificasse i casi, i conviventi e i contatti (l’Abc della sanità pubblica), intervenendo a domicilio o inviando quando necessario in ospedale, ha disorientato la popolazione, ha messo nel panico i pazienti e ha prodotto alla fine il collasso degli ospedali.

Abbiamo visto gli effetti dell’interazione di due pandemie. Più complesso è individuarne le cause. Un dato però balza agli occhi: entrambe sono iniziate intorno agli anni 80 del secolo scorso. Entrambe riconoscono la loro radice nella mano dell’uomo. Nell’ultimo mezzo secolo i comportamenti e i consumi alimentari hanno subito profondi cambiamenti. Alla loro base sta un insieme complesso di fattori socio-culturali, ambientali e economici, tra cui l’urbanizzazione, i mutamenti nella struttura della famiglia, la generale tendenza a dedicare meno tempo alla preparazione domestica dei pasti, il dilatarsi delle diseguaglianze socio-economiche all’interno della società e – infine – l’irrompere con la globalizzazione di giganteschi interessi industriali nel mercato del cibo e delle bevande. 

“Le compagnie multinazionali – si legge in un articolo di Lancet  – sono i maggiori responsabili dell’accelerazione della transizione nutrizionale: dalle diete tradizionali a quelle basate su highly processed food (cibi confezionati, precotti, conservati) and drinks”.  I processed food e le bevande zuccherate e gassate hanno invaso il mercato alimentare sospinti da una pubblicità martellante e dalla convenienza economica. Si tratta di prodotti con basso contenuto nutrizionale e ad alta densità di calorie, resi particolarmente appetibili dall’elevata presenza di zuccheri o di sale, e per questo definiti anche “unhealthy commodities”. Alimenti particolarmente rischiosi per la salute, in grado di provocare un’ampia varietà di malattie croniche, dall’obesità al diabete, dalle malattie cardiovascolari al cancro: una vera e propria “epidemia industriale”.

Anche nell’origine della Covid-19 c’è la mano dell’uomo. Il fenomeno del passaggio di un virus dall’animale all’uomo, con la conseguente possibilità del contagio da uomo a uomo – il “salto di specie” (“Spillover”), è un fenomeno che si è sempre verificato nella storia dell’umanità, ma negli ultimi decenni questo fenomeno si è presentato con una frequenza mai vista, dando vita a gravi epidemie e pandemie virali: HIV/AIDS e Ebola (dalle scimmie); influenza aviaria A/H5N1 (dagli uccelli selvatici); influenza A/H1N1 – la pandemia del 2009 – (contenente geni di virus aviari e suini); per arrivare ai coronavirus (comuni in molte specie animali come i cammelli e i pipistrelli) che hanno provocato nell’ordine: Sars (sindrome respiratoria acuta grave, Severe acute respiratory syndrome), 2002-03;  Mers (sindrome respiratoria mediorientale, Middle East respiratory syndrome), 2012; e l’attuale Covid-19.

La storia dei salti di specie è descritta magistralmente nel libro di David Quammen, pubblicato nel 2012, “Spillover: le infezioni umane e la prossima pandemia umana”. Seicento pagine di dati, analisi, supposizioni, racconti di viaggio. Pagine profetiche, percorse da una riflessione fondamentale.  L’uomo sta facilitando il passaggio di questi microrganismi dagli animali che facevano loro da serbatoio grazie a pratiche insensate. Il punto fondamentale riguarda il comportamento umano: la nostra ingordigia e il modo in cui abbiamo modificato e deturpato gli ecosistemi. “Noi siamo tutti parte della natura e dell’ecosistema, il nuovo virus arriva da animali selvatici che fanno parte di un sistema diverso dal nostro e che hanno una pletora di virus che però sono singoli e specifici per ogni specie. Quando noi mescoliamo ambienti diversi, specie diverse, deforestiamo, sconvolgendo gli ecosistemi, noi umani diventiamo degli ospiti alternativi per questi virus che non sarebbero venuti a contatto con noi diversamente. L’effetto moltiplicativo che l’incontro con l’essere umano genera, su sette miliardi di possibili e potenziali ospiti interconnessi fra loro con viaggi e contatti, è enorme”.

Gavino Macciocco è docente di Igiene e sanità pubblica presso l'Università di Firenze, è promotore e coordinatore del sito web Saluteinternazionale.info