Circa 20.000 anni fa, il livello del mare era di quasi 130 metri più basso dell’attuale, l’Italia era molto più grande, il Po sfociava all’altezza di San Benedetto del Tronto e l’Isola d’Elba era un promontorio. Anche se furono solo le ultime fasi di questo innalzamento a trovare degli agricoltori nella nostra penisola, questi dovettero ‘adattarsi’ al cambiamento, spostare le capanne, abbandonare i campi coltivati per dissodare nuovi terreni e trasferire gli animali domestici. Senza città, fabbriche, ferrovie, autostrade e un territorio retrostante senza limiti di proprietà, la cosa fu forse piuttosto semplice, e lasciò nella storia dell’uomo solo alcuni miti legati al Diluvio universale.

Oggi, con un innalzamento del livello del mare previsto assai minore, le cose sono ben più complicate. E il problema non è solo quello dell’erosione delle spiagge, processo che è stato fino ad ora causato quasi esclusivamente dal mancato apporto sedimentario da parte dei fiumi, dato che la sabbia che forma i nostri litorali è prodotta dall’erosione delle montagne, quanto il fatto che al livello del mare si raccorda il sistema fluviale, e a questo sono connessi altri sistemi sia naturali sia antropici. Le previsioni del livello del mare nei prossimi anni sono fatte dall’Ipcc (International pannel for climate change), che periodicamente aggiorna gli scenari che le variazioni climatiche potranno determinare. L’ultimo Rapporto prevede, per il 2100, nell’ipotesi più ottimistica, un innalzamento di 0.17–0.32 metri, mentre nella visione più pessimistica i valori salgono da 0.61 a 1.10 metri.

L’erosione, che oggi colpisce il 42% dei nostri litorali (senza contare i tratti difesi da scogliere di vario genere), proseguirà con ritmo accelerato, non solo perché l’innalzamento del livello del mare determina una maggiore sommersione delle coste, ma anche perché si ipotizza che il fenomeno sia accompagnato da un flusso della sabbia verso il largo per tenere il passo con il sollevamento. Sia le modalità con cui le coste subiranno (e/o reagiranno) all’ingressione marina, sia quelle che regoleranno i flussi di sabbia verso il largo, sono assai poco note e gli scenari che vengono prospettati oggi potrebbero risultare non del tutto veritieri in futuro.

Con il riscaldamento globale, stiamo assistendo a un incremento, in frequenza e intensità, degli eventi estremi, anche di quelli meteomarini, e l’attacco delle onde alle nostre coste sarà sempre più distruttivo. Gli eventi metereologici estremi dovrebbero portare a un maggior input sedimentario alle coste, ma la necessità di difendere le popolazioni dell’interno da frane e alluvioni sta già da tempo imponendo la stabilizzazione dei versanti e dando un motivo in più per la realizzazione di invasi artificiali, che bloccano tutti i sedimenti utili per le spiagge. In pratica, si ha un conflitto d’interessi fra le popolazioni che vivono all’interno e quelle che stanno sulle coste.

In ogni caso, un livello del mare più alto implica una maggiore probabilità di esondazione dei fiumi nelle pianure costiere, a cui si farà fronte con l’innalzamento degli argini; con il risultato di creare dei fiumi pensili sulle pianure, che costituiranno un grande pericolo per le popolazioni residenti. Ciò richiederà anche l’innalzamento dei ponti, per garantire il deflusso delle piene eccezionali, e di tutto quanto ad essi si raccorda (tracciati stradali e ferroviari, condotte, ecc.). Tutti i sistemi di bonifica andranno rivisti, per evitare che i canali portino all’interno l’acqua salata e non fuori quella dolce. Le popolazioni costiere dovranno decidere fra le diverse strategie: difesa, adattamento, arretramento strategico.

La difesa consiste nel creare barriere rigide (scogliere, dighe, argini) per contenere il mare che avanza, impegnando in questo anche le generazioni future, che dovranno rinforzare e rialzare continuamente queste difese, che comunque prima o poi verranno aggirate. L’adattamento prevede l’adeguamento delle strutture al nuovo quadro ambientale, senza che esse perdano la propria funzionalità. Innalzare il livello del suolo nei centri abitati, le vie di comunicazione e tutte le altre infrastrutture (sistema fognario, reti di distribuzione, ecc.). Piani di questo tipo sono in fase avanzata di studio, e per certi aspetti di realizzazione, in alcune città del mondo. L’arretramento è la soluzione considerata più sostenibile sul lungo termine e l’unica che non impegna le generazioni future. Consiste nello spostare gradualmente tutto l’edificato in aree che i modelli indicano non verranno raggiunte dal mare, neppure nello scenario più pessimistico. E sono già in atto operazioni di delocalizzazione di interi paesi, come ad esempio in Normandia, dove, dopo l'uragano Xyntia (47 morti e 50.000 ettari allagati), lo Stato sta procedendo allo spostamento.

Ovviamente, non sarà possibile adottare una soluzione unica e, molto probabilmente, per ogni località si dovrà procedere con una miscela delle tre strategie, non solo nell’obiettivo finale, ma anche nei tempi di attuazione. Ognuna di queste soluzioni, e anche la miscela delle tre, richiede un percorso di partecipazione e condivisione estremamente impegnativo, nel quale dovranno essere coinvolte, assieme alle popolazioni locali, anche le più diverse professionalità - dall’ecologo all’ingegnere, dall’agronomo al sociologo, dal geologo all’economista -, e altre ancora.

I territori abbandonati non dovranno essere tali, nel senso che dovrà esserne pianificata la trasformazione e garantita alle popolazioni una qualità della vita uguale, se non superiore, a quella attuale. In queste aree si dovrà investire forse più che nelle altre, non solo in termini economici, ma anche di progettualità, intelligenza e fantasia. Sarà (sarebbe!) l’occasione per un grande intervento di restauro del territorio, con lo spostamento delle popolazioni in aree più sicure (da coste, fiumi, vulcani, e forse anche terremoti) e un’utilizzazione dei vari ambienti in funzione delle proprie vocazioni e non, come ora, quale risultato di una secolare crescita scoordinata e utilitaristica: si pensi solo alla ferrovia che corre lungo la costa adriatica, che non necessita della vicinanza al mare, ma che ha incentivato l’erosione delle spiagge e tolto a una funzione più idonea un territorio di grande valore ambientale ed economico.

Si tratta di grandi interventi, ma anche di piccole opere diluite nel tempo, che potrebbero garantire un lavoro continuo e diffuso su tutto il territorio nazionale. La gestione delle fasce costiere richiederà comunque innovazione tecnologica per monitoraggio, allerta ad assistenza delle popolazioni che non potranno essere delocalizzate, e molto si sta già facendo; mentre l’adeguamento delle dighe foranee dei porti potrebbe essere associato a impianti di produzione di energia da moto ondoso. Le aree umide che si verranno a creare potranno essere utilizzate per la fitodepurazione, produzioni agricole specifiche, itticoltura e turismo ambientale. Si tratta di un progetto impegnativo, per il quale il Paese non sembra pronto, ma l’unica occasione che abbiamo per avviarlo è data dal Next generation Eu. Purtroppo, mentre il livello del mare si alza lentamente, ma con decisione, noi siamo fermi e titubanti.

Enzo Pranzini è docente di Climatologia e difesa dei litorali; presidente del gruppo nazionale di ricerca sull'ambiente costiero

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