Sembra si sia persa la cognizione che i finanziamenti del Recovery fund saranno strettamente condizionali alle priorità dell’agenda europea, la quale, da mesi, ha già dettato linee guida molto chiare, focalizzate soprattutto su riconversione verde e infrastrutturazione digitale. A livello europeo, gli obiettivi sono principalmente due: abbattere a zero, in soli due decenni, le emissioni climalteranti di CO2 e sostenere crescita e occupazione con un gigantesco sforzo di ammodernamento tecnologico. Sebbene vi sia troppa accondiscendenza circa gli stimoli fiscali per investimenti e innovazione, per il nostro Paese tali stimoli dovrebbero almeno considerare la catena del valore. Infatti, l’efficacia degli stimoli fiscali dipende dalla rilevanza e dalla capacità di reazione del settore stesso, e dalla possibilità di trasmettere tale stimolo al resto del sistema.

La struttura economica del Paese condiziona l’efficacia delle misure fiscali, sia in termini di scambi economici sia in termini di trasmissione di tecnologia, innovazione e competitività (Istat, audizione Commissione Bilancio, 2 settembre 2020). In altri termini, l’intensità tecnologica degli investimenti (rapporto R&S/Investimenti) più contenuta dell’Italia rispetto alla media dei Paesi europei, ma coerente con la nostra specializzazione produttiva, pregiudica l’efficacia degli incentivi fiscali, come mostra l’evidenza empirica dei finanziamenti pubblici a favore di industria 4.0, che hanno determinato un aumento delle importazioni di beni capitali dalla Germania. Conciliare queste macro-priorità non è semplice.

Analizzando gli investimenti e gli impatti previsti dal Pniec, cioè dal Piano nazionale per l’energia e il clima di fine 2019 (che dovrebbe essere un punto di partenza imprescindibile anche per l’elaborazione del Recovery plan italiano), è possibile mostrare che gestire i potenziali trade-off  fra obiettivi ambientali e occupazionali è una sfida complessa: i settori economici che hanno maggiore rilevanza ai fini dell’abbattimento delle emissioni non coincidono necessariamente con quelli che presentano i moltiplicatori maggiori su crescita e occupazione.

Secondo l’Ispra, il 70% delle emissioni di gas serra italiane (24,5% trasporti, 24% settore elettrico, 17,6% termico residenziale e 4% gestione dei rifiuti) sono generati da settori che, secondo le simulazioni del Pniec, hanno anche impatti relativi limitati sull’occupazione. Coerentemente con la priorità europea di riduzione delle emissioni di CO2, il Pniec destina comunque oltre tre quarti degli investimenti pubblici annui, previsti da qui al 2030, proprio a residenziale, trasporti e settore elettrico, che sono i settori di competenza dei governi nazionali e dove l’intervento pubblico appare più necessario e urgente.

Le politiche sul settore energetico e sui comparti industriali energivori (chimica, farmaceutica, gomma, acciaio ecc.) come anche sull’aviazione civile, sono di competenza prevalentemente europea (soggetti alla cosiddetta Direttiva Ets) e non vengono conteggiate nei piani nazionali. Negli ultimi trent’anni, i settori sottoposti alla regolamentazione europea sono quelli che hanno dato il contributo più rilevante alla riduzione delle emissioni. Fra il 1990 e il 2018, l’industria ha quasi dimezzato i gas climalteranti, per merito quasi esclusivo dei comparti soggetti a regolamentazione europea (energetico, chimica/farmaceutica, gomma/materie plastiche e metallurgia), mentre i principali settori di competenza nazionale (residenziale, trasporti e rifiuti) le hanno invece aumentate.

È giusto, quindi, che siano questi i settori posti al centro delle politiche di riconversione energetica. Il problema è che gli altri settori di attività economica (quelli che non rientrano né nella sfera di competenza europea né fra le priorità nazionali), anche se contano meno in termini di emissioni, pesano invece moltissimo in termini di valore aggiunto e di occupazione.

Nel complesso, questi settori (agricoltura, turismo, tessile, meccanica, informatica, finanza, attività immobiliari, commercio ecc.) rappresentano più dell’80% del valore aggiunto del paese, e ad essi andrebbe dedicata grandissima attenzione sull’altro versante del Recovery plan (quello della modernizzazione produttiva): costituiscono, piaccia o no, la spina dorsale dell'Italia. Cambiare il motore della macchina senza fermarla (R. Lombardi) è la sfida di struttura che ci attende.

Nei mesi scorsi, Mario Draghi (al Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione) e il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco (all’Euroscience Open Forum) hanno declinato la loro ‘visione del futuro’ per l’Italia. Per Draghi e Visco, la priorità inderogabile (e del tutto condivisibile) sono estensivi e generosi investimenti, non solo in capitale fisico, ma anche e soprattutto in conoscenza, che deve condurre a una nuova specializzazione produttiva. La visione di Draghi e Visco è quella di correggere le carenze più vistose del modello di sviluppo perseguito in Italia negli ultimi trent’anni.

Il modello di sviluppo perseguito dall’Italia a partire dai primi anni ’90 (ricerca di competitività esterna attraverso la deflazione interna - e quindi bassi salari -, disarticolazione del mercato del lavoro, privatizzazioni anche di settori strategici, smantellamento della programmazione economica ecc.), si è infatti dimostrato disastroso, perché ha indebolito il tessuto produttivo, ha sottratto alla crescita il contributo determinante della domanda interna e - via bassa crescita - ha contribuito a rendere insostenibile il debito pubblico. Riproporre quel modello e addirittura pretendere di esasperarlo, ci condannerebbe a una stagnazione economica perpetua.

Il consuntivo che i dati propongono è molto preoccupante. Il sistema economico italiano è finora sopravvissuto solo sull’estrema compressione dei salari (circa 16.000 euro annui contro i 30.000 della Germania e i 26.000 della Francia, nella media 1995-2018) e sullo sfruttamento intensivo del lavoro (strutturalmente le ore lavorate pro-capite annue sono in media 1.725 in Italia, 1.550 in Francia e 1.450 in Germania); un modello in cui l’impresa privata non investe e non innova, in ragione delle caratteristiche tecniche del sistema economico e industriale (gli investimenti privati sul Pil sono del 25% inferiori a Germania e Francia; quelli in R&S la metà), e tutto questo nonostante le imprese abbiano goduto di incentivi più generosi che altrove (si veda il Rapporto Giavazzi del 2012) e di una distribuzione del reddito mediamente molto più favorevole.

Roberto Romano è ricercatore in Cgil Lombardia con incarichi di studio per il Forum Economisti
Marco Noera è docente di Finanza ed economia dei mercati finanziari all'Università Bocconi di Milano

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