Nella dichiarazione programmatica del presidente Draghi, tra le prime riforme da attuare nell’ambito del Next Generation Eue, ci sono quelle della pubblica amministrazione e della giustizia. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, parlando all’Università Bocconi, è stata chiara: se i progetti italiani, non traguarderanno una credibile innovazione nell’amministrazione pubblica e una giustizia più celere, i 210 miliardi dell’Europa non arriveranno in Italia.

Sulla digitalizzazione e l’innovazione della Pa almeno 42 miliardi potranno essere spesi. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza del presidente Conte per “Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura” impegna 46,3 mld, di cui 11,75 dedicati a digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella Pa. Vedremo le modifiche che introdurrà Mario Draghi e capiremo in che direzione orienterà i contenuti dei singoli progetti. Egli ha affermato: “La riforma della Pa dovrà muoversi su due direttive: investimenti in connettività con anche la realizzazione di piattaforme efficienti e di facile utilizzo da parte dei cittadini; aggiornamento continuo delle competenze dei dipendenti pubblici, anche selezionando nelle assunzioni le migliori competenze e attitudini”.

Sono obiettivi di buon senso, ma siamo ancora ai titoli se non decliniamo meglio e di più, aggredendo i mali che hanno impedito alla Pa di migliorare nonostante le numerose riforme. Hanno avuto tutte la pretesa di riuscire per legge, ma è perfino utopistico immaginare il minimo cambiamento senza la condivisione e il coinvolgimento di chi vive e lavora nella Pa. Commettere oggi lo stesso errore sarebbe oltremodo colpevole, vista la posta e i denari in gioco. Al governo Draghi chiediamo un confronto reale con chi rappresenta il lavoro pubblico.

La Funzione pubblica della Cgil il 4 maggio 2020, ha messo a disposizione del governo e del paese un contributo di analisi e proposte per “Una nuova stagione di protagonismo dei servizi pubblici, nella transizione pandemica verso un futuro più giusto e sostenibile”. La pandemia ha reso evidenti le reali condizioni della Pa dopo anni di forte disinvestimento: un piano di ripresa non può prescindere dalla corretta analisi dello stato in cui sono le amministrazioni e delle potenzialità che nel lavoro pubblico pure ci sono. Il rischio della chiusura totale di uffici e servizi pubblici, anche delle amministrazioni centrali, è stato evitato per la capacità di lavoratrici e lavoratori di auto-organizzarsi.

A marzo 2020, infatti, la preoccupazione della dirigenza era soprattutto di evitare il rischio propagazione dei contagi e lo smart working pre-Covid non aveva generato cambiamento, complice la forte svalorizzazione del lavoro agile, considerato spesso una fastidiosa concessione da mettere a disposizione di chi mal sopportava le rigidità dell’organizzazione del lavoro centrata sul controllo del tempo e non su obiettivi da realizzare. Nella prima fase, lavoratrici e lavoratori sono stati lasciati soli di fronte alla necessità di attrezzare il benché minimo servizio: il ricorso all’utilizzo delle strumentazioni personali (telefonini, tablet, pc), in mancanza di dotazioni da parte delle amministrazioni è stato la sola risorsa per evitare la chiusura di molti uffici.

Questa condizione ha inciso maggiormente su servizi di prossimità: l’erogazione di prestazioni come la cassa integrazione all’Inps; i controlli sulla sicurezza in azienda e sui cantieri piuttosto che su merci e prodotti alimentari e sanitari, per parlare delle attività di Inl, Inail, Agenzia delle dogane; per non parlare dei servizi della giustizia. Il ministero della Giustizia è forse l’esempio più eloquente del tanto che ancora c’è da fare a proposito di digitalizzazione. Certo, non siamo più al caso di qualche anno fa in cui fu Franca Rame a donare alcuni pc al Tribunale di Milano, ma il processo di dematerializzazione degli atti è ancora lontano dal dirsi concluso oltre a essere affidato a lavoratori precari, mal pagati e senza diritti.

Per questo non è condivisibile la previsione che le sole assunzioni previste siano a tempo determinato. Importanti riforme del nostro Paese sono naufragate per la mancata condivisione delle banche dati. Basti osservare il flop dell’unificazione dei servizi ispettivi di Inl, Inail e Inps per capire come da un lato le “gelosie dei dati” e dall’altro l’improvvida esternalizzazione dei servizi informatici dell’Inps hanno stroncato ogni prospettiva di rilancio dell’azione ispettiva in materia di lavoro nel nostro paese. Il presidente Draghi opportunamente affianca l’obiettivo della digitalizzazione a quello delle competenze.

È importante reclutare le migliori competenze in uscita dal mondo universitario e della formazione tecnica e bisogna farlo in fretta, per non perdere l’opportunità di implementarle con l’esperienza di quanti stanno andando in pensione. Ma vanno curate anche le competenze di chi ha ancora davanti a sé anni di servizio. C’è bisogno di ripensare modelli organizzativi e percorsi formativi permanenti e continui perché l’innovazione corrisponda a miglioramenti di qualità, efficacia, efficienza, servizi. Tanto per i neoassunti quanto per chi già c’è nella Pa bisogna porsi l’obiettivo di rendere il lavorare nella Pa attrattivo e riconoscente. Scommettere sulla rinascita dell’orgoglio del lavoro e dei servizi pubblici.

Nelle amministrazioni dove si è assunto negli ultimi anni i nuovi lavoratori pubblici si misurano con amministrazioni che fanno poco o nulla per invogliarli a restare. Le retribuzioni non sono all’altezza di quelle dei colleghi europei e non reggono il confronto, a parità di mansioni, col privato; i percorsi di carriera sono una chimera e scarsamente decifrabili. Rinnovare i contratti, riformare sistemi di classificazione e meccanismi di valorizzazione e riconoscimento delle professionalità, sono le leve funzionali alla realizzazione delle riforme del Pnrr. Per evitare un’altra riforma incompiuta e la perdita delle risorse dell’Europa.

Florindo Oliverio è segretario nazionale della Fp Cgil