La lunga e dolorosa stagione pandemica e il conseguente confinamento hanno comportato uno spostamento del centro di gravità delle nostre attività, ma anche della nostra identità, dal mondo degli atomi a quello dei bit e conseguentemente hanno riportato al centro del dibattito natura, ruolo ed effettività del diritto a una connessione digitale.

Ma, per parafrasare Raymond Carver, di cosa parliamo quando parliamo di accesso a Internet quale diritto fondamentale?

Può forse rivelarsi utile, al fine di rispondere al quesito e a fare chiarezza sul punto, resistere alla tentazione dell’attrazione fatale a una “retorica” dei diritti fondamentali diffusa in diverse trattazioni relative all’impatto di Internet e concentrarsi invece sul profilo, più sostanziale, e assai più utile, dell’effettività della tutela.

Nel diritto pubblico, un diritto fondamentale in senso stretto si caratterizza in quanto diritto che trova la sua base giuridica in una fonte di rango costituzionale o para-costituzionale, che quindi non può essere modificata dalla legislazione ordinaria e che gode, in forza di ciò, di una protezione rafforzata. Precisato questo passaggio, se ci si pone la domanda su quante e quali siano le esperienze costituzionali che, almeno nel contesto europeo, hanno adottato un simile approccio, i riscontri sono davvero marginali.

Soltanto in Grecia si è assistito a una codificazione dell’accesso a Internet come diritto fondamentale in senso stretto; altrove, invece, si registrano importanti iniziative in cui l’accesso a Internet non riveste rango costituzionale, bensì è previsto a livello legislativo con disposizioni che possono essere senz’altro modificate da leggi successive in base al criterio cronologico, e quindi risultano derogabili anche in peius. Il denominatore comune di queste esperienze comparate, fra cui si annoverano Finlandia, Estonia, e Spagna è la “trasfigurazione” dell’accesso a Internet quale diritto che si traduce nell’accesso alla banda larga da parte di tutti i cittadini e al servizio universale. In Finlandia, è stato un decreto del ministero dei trasporti e delle comunicazioni relativo al livello minimo di accesso funzionale a Internet come servizio universale a prevedere che per ogni connessione a Internet sia garantita una velocità di almeno un Megabit per secondo. In Estonia, è stato già il Telecommunications Act del 2000 a stabilire, nell’ambito della disciplina del servizio universale, che Internet debba essere, per l’appunto, “universalmente disponibile” a tutti gli utenti. Analoga è l’impostazione seguita dalla legge spagnola del 2011, sull’economia sostenibile (n. 2) che ha collegato l’accesso a Internet al servizio universale. In altre esperienze (come per esempio in Francia e in Costa Rica), è stata invece la giurisprudenza a incaricarsi di fare emergere, attraverso alcune rilevanti decisioni, l’esistenza di un diritto fondamentale di accesso a Internet. E in questi casi, il diritto di accesso a Internet è parso configurarsi come una declinazione tipica della libertà di espressione, quasi una sua  evoluzione o comunque una sua proiezione nell’innovato contesto tecnologico. Così è accaduto, per esempio, in Francia, dove la sentenza emessa nel caso Hadopi (2009-580 DC, 10 juin 2009) ha colto il diritto di accesso alla rete eminentemente nella sua dimensione di corollario della libertà di espressione e di comunicazione su Internet.

Alla luce del quadro che si è brevemente delineato, una codificazione costituzionale del diritto di acceso a internet, ammesso che sia utile, quale collocazione dovrebbe trovare?

Nonostante lo stretto collegamento con la libertà di manifestazione del pensiero, di cui il diritto d’accesso viene considerato una possibile declinazione in una versione “tecnologicamente evoluta”, inserire un obbligo prestazionale da parte dello Stato volto non solo a promuovere, ma anche a realizzare un diritto di accesso a Internet, all’interno di una sedes materiae che è quella tipica delle libertà negative, qual è la libertà di espressione, e segnatamente nel titolo dedicato ai diritti civili, potrebbe essere incongruo rispetto al panorama comparato. In Grecia, per esempio, unica esperienza in cui l’accesso a Internet è stato codificato a livello costituzionale, tale diritto non è stato delineato come un vero e proprio obbligo positivo, inserendosi nell’ambito dell’art. 5(a), che tutela i diritti sociali e individuali. L’obbligo che grava sullo Stato, infatti, secondo la Costituzione greca, è solo quello di facilitare l’accesso ai dati trasmessi per via elettronica e la diffusione delle informazioni. Così, l’esperienza comparata documenta che, quando il diritto di accesso a Internet viene inserito nella prima parte delle costituzioni, relativa perlopiù alla tutela della libertà negative, non si assiste alla previsione in senso stretto di un obbligo di tipo prestazionale. Quindi, il requisito della strumentalità, tipico dell’accesso a Internet, è già insito in un’interpretazione evolutiva dell’articolo 21 della Costituzione italiana. Basti vedere come la giurisprudenza costituzionale, sin dalla la sentenza n. 225/1974, ha qualificato l’accesso al mezzo televisivo, nel momento storico in cui tale mezzo rappresentava lo stadio tecnologico più evoluto, come strumentale all’esercizio di altri diritti, senza però che nessuno abbia mai rivendicato un diritto di accesso al mezzo televisivo nell’articolo 21. Non appare inutile precisare, peraltro, che evocare il diritto di accesso a Internet in termini di diritto fondamentale sembra rompere la tradizionale e consolidata dicotomia che oppone la categoria dei diritti fondamentali intesi come libertà negative a quella dei diritti sociali, che postulano invece un intervento positivo e attivo da parte dei pubblici poteri.

Da questo punto di vista sarebbe utile piuttosto riflettere sull’opportunità di introdurre un eventuale art. 34-bis, che appare sorretto da maggiori profili di interesse sul piano della sistematica costituzionale. Il primo: una codificazione di carattere costituzionale di un diritto a una prestazione sociale consentirebbe di ottenere quanto in altre esperienze comparate non è attualmente garantito: ossia la possibilità di tutelare i cittadini rispetto a possibili arretramenti da parte dei pubblici poteri. Finlandia, Estonia e Spagna tutelano sì un diritto di accesso alla banda larga, ma sempre sulla base di una previsione di rango legislativo e non di un fondamento costituzionale diretto. In Italia, invece, una simile garanzia e un simile fondamento potrebbero essere integrati tramite una norma di rango costituzionale come l’articolo. 34-bis.

In secondo luogo, questa opzione consentirebbe di “iniettare” una dose di socialità al concetto di servizio universale, con un’operazione che risulta fondamentale perché consente di recuperare un parametro comunitario. Sarebbe molto utile, anzi, provocare una simile iniezione di socialità in questo concetto attraverso un obbligo di intervento che non guardi soltanto agli operatori in un’ottica concorrenziale ma anche allo Stato in via diretta.

Un altro punto sembra poter produrre risvolti di interesse: potrebbe essere utile cercare di dare immediata attuazione a quelle forme di tutela che sono proprie del bill of rights europeo, ossia la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Dagli artt. 25, 26 e 36 della Carta emerge un concetto di social inclusion che si materializza nel diritto degli anziani a partecipare alla comunità sociale e culturale, nel diritto delle persone con disabilità a beneficiare di misure per inserimento sociale e nell’obiettivo di una coesione sociale e territoriale dell’Unione.

Un ultimo profilo di grande momento riguarda il tipo di giustiziabilità che appare possibile immaginare per questo diritto. Possono essere percorse almeno due strade, a questo riguardo. La prima consiste nel valutare la ragionevolezza dell’intervento del legislatore a tutela del diritto sociale considerato, guardando al bilanciamento con altri interessi contrapposti (per esempio, la disponibilità finanziaria e la salvaguardia del bilancio).

Al riguardo, la giurisprudenza costituzionale sul diritto d’istruzione fornisce delle linee guida molto interessanti, a cominciare dalla sentenza n. 80/2010, in materia di insegnanti di sostegno, in cui la Consulta, nel bilanciamento tra interessi finanziari e diritto all’istruzione, si è dimostrata tutt’altro che indifferente a quest’ultimo. Anzi, ne ha assicurata la prevalenza.

La seconda opzione è più radicale ed azzardata. Si può andare oltre la “riserva del possibile”? Si può garantire, cioè, un riconoscimento a livello costituzionale di un diritto sociale che potrebbe condurre a un sindacato della Corte costituzionale rispetto all’omesso intervento del legislatore?

In altri termini, la mancanza di un intervento da parte del legislatore può costituire motivo per la Corte costituzionale di sindacare la costituzionalità di una determinata situazione?

Difficile, ma la domanda va posta.

Professore ordinario di diritto costituzionale dei media, Università Bocconi e membro del comitato esecutivo dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali