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Oggi mi tocca confessarlo: svegliarmi senza le notizie è stato sublime come un pugno nello stomaco. Un chiarore strano, quasi radioattivo. Il silenzio editoriale del Paese intero e io, direttore di Collettiva, a godermi lo shock. Perché se perfino noi ci fermiamo, significa che la misura è colma e che l’informazione italiana ha smesso di fingere.
Siti immobili, tv orfane dei tg, come se all’improvviso mancasse l’appiglio di sempre. Quel lieve smarrimento racconta molto più di mille editoriali. Intanto i colleghi oggi scioperano per un contratto sepolto nel 2016, come se chiedere condizioni decenti fosse un vizio da estirpare. Io sto con loro. Anzi ci sto dentro.
I grandi gruppi editoriali, quelli che hanno chiamato “innovazione” la più banale delle macellerie, misurano l’imbarazzo. Hanno prosciugato redazioni e stipendi raccontando al mondo di essere visionari. Il frutto è davanti a tutti: un’informazione dimagrita a forza, svuotata, incapace di reggere la prova di un giorno di silenzio.
In questo quadro perfino l’intelligenza artificiale ronza come una formica elettrica. Priva di regole, serve solo a mostrare quanto sia fragile un sistema che crede di rimpiazzare la responsabilità con un algoritmo. I giornalisti chiedono tutele e compensi veri per chi lavora ogni giorno nell’ombra. Richieste ovvie, eppure trattate come se fossero attentati al profitto.
E allora sì, oggi mi fermo anch’io. Perché questo sciopero non è un capriccio ma un avvertimento. È la radiografia di un Paese che senza voci libere diventa terreno fertile per chi ama il buio. Oggi ricordiamo a tutti che l’informazione non è un soprammobile da lucrare ma un motore democratico. E che se lo si lascia senza carburante, prima o poi si spegne.






















