PHOTO
È finita come tutte le grandi storie d’amore tra superpotenti: in un’esplosione di soldi, rancori, tweet isterici e un vago odore di plastica bruciata. Elon Musk, un tempo cane da guardia dell’efficienza federale americana, si è svegliato e ha scoperto che Trump, l’amico del cuore, gli aveva rigato la Tesla. Il “One Big, Beautiful Bill Act” – nome da televendita a reti unificate – ha colpito al cuore gli incentivi per le auto elettriche. Una coltellata ben assestata, considerando che il marchio colpito è proprio il suo.
Donald, nel suo eterno ruolo da statua di cera impermeabile al ridicolo, non fa una piega. Anzi: definisce il provvedimento “bellissimo”, come il muro col Messico o la bistecca affogata nel ketchup. Elon, invece, prende fuoco: “Debito fuori controllo!”, “Traditori!”, “Via tutti!”. Il bersaglio? I deputati repubblicani, una volta suoi fan adoranti, oggi pronti a disinstallarlo come fosse un antivirus scaduto.
Ma non è solo questione di Tesla. Anche Starlink, il suo impero orbitante, ha subito un brusco atterraggio: niente semaforo verde per controllare il traffico aereo dallo spazio. E per completare la combo degli sgarbi: Jared Isaacman, fedelissimo con curriculum interstellare, fatto fuori dalla corsa alla Nasa. Tris perfetto dal manuale della vendetta passivo-aggressiva in politica.
Musk ora giura tempesta. Minaccia di finanziare rivali, giura punizioni esemplari per i traditori e sogna di rifondare il partito repubblicano in salsa Silicon Valley. Un riformismo che profuma di vendetta e sa di litio, da servire solo a investitori ben nutriti.
Così la liaison tra Musk e Trump implode nel più classico dei dispetti miliardari. Da alleati cosmici a nemici stellari, da visioni comuni a faide da soap interplanetaria. Perché nel teatrino della politica a stelle e strisce nemmeno le amicizie più glitterate reggono l’urto del bilancio federale.