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Ogni sera il palinsesto scivola come una trottola impazzita che gira sempre sulla stessa moquette televisiva, dove i conduttori si passano il microfono come un talismano logoro. Il gioco è semplice. Sintonizzi l’ennesimo talk e ritrovi la stessa brigata che si specchia compiaciuta nella vetrina di rete, una processione di volti che si benedicono a vicenda mentre il pubblico si abitua alla replica infinita del già detto.
A Mediaset il carosello sfiora il sublime. Porro che blandisce Del Debbio che vezzeggia Porro che ospita Giordano che strizza l’occhio a Cerno che accarezza Capezzone che sospira verso Belpietro che offre un inchino a Feltri che lancia un cenno a Sallusti mentre Cruciani applaude come un chierichetto della polemica. Una liturgia che pretende il nome di confronto e somiglia all’autoritratto di rete più narcisista della nostra epoca.
Dall’altra sponda, Cairo propone la variante colta. Floris che corteggia Augias che convoca Gramellini che scherza con Floris che si specchia dalla Gruber che culla Giannini che risponde a Cazzullo che da Telese e Aprile agita le acque con zelo civico. Un circuito che gira piano come un mappamondo da scrivania. Tutti si parlano come se il Paese fosse questo elegante corridoio dove passano sempre gli stessi.
Il risultato è un’Italia riprodotta in laboratorio. Niente crepe. Nessuna sorpresa. L’opinione pubblica ridotta a eco di se stessa mentre le voci scomode restano al freddo. Intanto il dibattito scivola in un eterno salotto che pretende autorevolezza e regala solo comfort.
Forse è il momento di spezzare il cerchio. Chiedersi chi decide la temperatura del discorso. E soprattutto capire se la democrazia può sopravvivere a questo gioco di specchi dove ogni verità rischia di sparire come un riflesso che svanisce quando qualcuno osa accendere una luce vera.






















