Se n’è andato Stefano Benni e già sento il fruscio dei necrologi istituzionali, quelli scritti col righello da chi non lo ha mai letto ma oggi piange “il grande scrittore satirico”. Il Lupo li avrebbe presi in giro a sangue, infilando ministri e notabili in uno dei suoi bar sport popolati da incompetenti tronfi e filosofi da bancone. La differenza è che lui rideva con la gente, non della gente, e per questo la sua penna era tanto affilata da graffiare ancora oggi.

Il suo talento era scomodo, perché non era catalogabile: non romanziere puro, non poeta solo, non umorista semplice. Era un anarchico della parola, uno che mescolava Dante con il cabaret, Rabelais con la Gazzetta dello Sport, Pasolini con il jazz. In un Paese che ama le etichette come i salumi al supermercato, lui non stava in nessuno scaffale. E questa, più che una virtù, era un crimine.

Perché Benni smascherava, sempre. Lo faceva con ironia feroce, quella che non consola ma disarma. Politici, potenti, burocrati, venditori di verità: tutti finivano al suo tiro al bersaglio, trasformati in caricature più vere del vero. Ma non era un gioco: dietro i suoi mostri c’erano sempre fame, ingiustizie, ipocrisie. Non la risata complice del varietà televisivo, ma la risata che spacca, la risata che libera.

Ed è per questo che Benni, pur essendo letto da milioni, non è mai diventato un santino letterario. Perché rifiutava onorificenze come si rifiuta un bicchiere d’acqua avvelenata, e ricordava a chi lo voleva in pantofole che la cultura è un bene comune, non un trofeo ministeriale. Il suo “no” al Premio De Sica per i tagli alla scuola resta un gesto raro in un Paese dove i più si vendono per molto meno.

Ora che il Lupo se n’è andato, non resta il silenzio. Restano i suoi mondi, le sue creature stralunate, le sue parole che non hanno mai obbedito. E chissà che non stia già scrivendo da qualche parte un nuovo “Bar Sport” dove ministri, banchieri e generali fanno figure da cioccolatai, e noi possiamo ancora ridere per non morire.