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Un bambino di sei mesi è morto annegato a pochi metri dalla riva. Ma la vera notizia, per il ministro dei Trasporti Salvini, è che sei militari rischiano un processo. “Vergogna”, ha scritto sul suo sfogatoio social. Una parola sola, chiara, cristallina. Peccato che sia rivolta nella direzione sbagliata. Perché se c’è una vergogna, è quella che si legge nei verbali della procura: negligenze a catena, omissioni a incastro, la priorità alla burocrazia invece che alla vita.
La nave dei migranti è stata avvistata. Segnalata. Monitorata. Poi lasciata affondare. Le condizioni meteo peggioravano, la Guardia Costiera offriva mezzi adatti, ma chi di dovere ha preferito trattare tutto come una routine di polizia, perché altrimenti si rischiava di salvare qualcuno. E non sia mai. Altrimenti poi tocca fargli posto, accoglierli, magari addirittura considerarli esseri umani.
Ora, davanti alla prospettiva che qualcuno possa pagare per tutto questo, ecco il ministro scattare in difesa del principio sacro dell’impunità in divisa. La divisa, si sa, lava via ogni responsabilità. Anche quando i fatti dicono che bastava fare una telefonata in più, alzare un sopracciglio, usare un radar, leggere le onde. Invece si è preferito aspettare e poi piangere. Ma in modo ordinato, controllato, istituzionale.
Perché in fondo, a ben guardare, queste morti non sono tragiche. Sono funzionali. Servono a tenere il punto, a mostrare che qui si difendono i confini, mica le persone. Se ci scappa il morto, pazienza. Se ci scappano un centinaio, che meglio: fa deterrenza. E allora via, con l’indignazione selettiva, con l’onore da proteggere. Dei vivi che comandano, non dei morti che chiedevano aiuto.
E il processo, che parta pure. Tra le urla indignate, i tricolori spiegati e i tweet di Salvini. Ma il bambino affogato non leggerà nessuna sentenza. E neanche i suoi genitori. Loro la vergogna l’hanno già vista. Era alta due metri, con la scritta “Barbarisi” sul fianco, ed è arrivata troppo tardi. Per negligenza. Ma soprattutto per scelta.