PHOTO
Il livore e il risentimento della presidente del Consiglio dal palco di Atreju ancora galleggiano, come un’umidità cattiva dopo lo smontaggio delle luci. Un astio metodico, distribuito con zelo liturgico contro chiunque respiri fuori dal recinto della fedeltà. Sinistra, Bruxelles, giudici a rotazione, attiviste climatiche, sindacalisti, giornalisti colpevoli di autonomia. Un rosario dell’odio curioso, recitato da chi governa dall’alto.
In un Paese vagamente normale chi comanda prova a indicare una direzione, invece di sparare ai bersagli mobili. Abbandona il vittimismo seriale e indossa una postura istituzionale, persino alla festa di partito. Qui accade il contrario. Si governa da anni, con alleati stagionati nel potere, e si continua a recitare l’assedio. La responsabilità scivola sempre altrove, il presente pesa solo sugli altri.
Il Paese evocato dal palco vive in una Fantàsia selettiva. Spread addomesticato per cause esterne, crescita stanca, produzione industriale inchiodata, salari da fondo classifica europea. Nei mercati rionali la polvere sotto il tappeto luccica al sole. L’Italia corre nei discorsi, inciampa nei numeri, resta ferma alla cassa.
Sul futuro domina un silenzio educato. Intelligenza artificiale marginale, imprese agli ultimi posti, automotive allo sbando senza bussola. Stellantis brandita come clava contro il sindacato, ex Ilva lasciata sprofondare nel rumore di fondo. Il lavoro entra in scena solo come pretesto polemico, mai come priorità politica.
Alla fine Atreju somiglia a un luna park ideologico. Si sale sul trenino del rancore, si urla contro sagome di cartone, si scende convinti di aver fatto la rivoluzione. Poi si spengono le luci, restano le macerie e il Paese da governare. Divertente finché dura, faticoso il risveglio. Soprattutto per chi scopre che i nemici erano scenografie e il problema, come sempre, la realtà.






















