Fanno discutere le affermazioni di Raffaele Guariniello e Pietro Ichino sulla possibilità di licenziare il lavoratore che dovesse rifiutare il vaccino Covid. L’obbligo di sicurezza del datore di lavoro legittimerebbe l’imposizione del vaccino, pena il licenziamento se il rifiuto mette a rischio la salute di altre persone.

Chi scrive non ha alcuna tentazione no vax e pensa che tutti debbano concorrere allo sforzo collettivo contro la pandemia, anche e opportunamente vaccinandosi. Ma ad oggi la legge non prevede l’obbligo di vaccinazione Covid né in generale né nei luoghi di lavoro: forse è opportuna una disciplina sul punto per alcune situazioni e figure professionali, e se questa interverrà la questione dovrà essere rivalutata.

Intanto, il quadro giuridico è dato dall’art. 32 Cost. che prevede che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Per Ichino la legge sarebbe l’art. 2087 c.c. che prevede l’obbligo del datore di lavoro di adottare le misure necessarie a tutelare la salute dei lavoratori. Guariniello aggiunge il riferimento al T.U. n. 81/2008, art. 279. Ma la riserva di legge posta dalla Costituzione esige, secondo la dottrina costituzionalista, che la legge preveda in maniera specifica il trattamento sanitario obbligatorio.

Il vaccino, quando sarà disponibile per una vasta diffusione, potrebbe integrare il sistema di sicurezza sul lavoro, ma in assenza di un obbligo legale il lavoratore potrebbe non aderirvi. L’auspicio è che ciò avvenga solo per ragioni collegate alle condizioni di salute, ancor meglio se certificate: precisando che intendo non solo condizioni per le quali la scienza medica abbia già accertato una controindicazione o un elevato rischio, ma anche situazioni in relazione alle quali non sia ancora ragionevolmente valutabile il rischio da vaccinazione, in base alla regola di precauzione. Ma, dal punto di vista giuridico, il rifiuto del vaccino non richiede oggi una certificazione medica a supporto, e potrebbe basarsi anche su una (pur non condivisibile) paura personale.

Per tutte tali situazioni, l’equazione rifiuto = inidoneità = licenziamento è certamente sbagliata (e infatti, da diversi commentatori anche vicini al mondo delle imprese vengono valutazioni molto più prudenti: v. ad es. G. Falasca). Vediamo perché.

È inutile dire che l’assenza di un obbligo esclude di per sé l’ipotesi di un licenziamento disciplinare. Sul piano oggettivo il vaccino può essere una misura consigliata per ridurre il rischio dei contagi nel luogo di lavoro, ma la sua indispensabilità non può affermarsi in astratto ma va valutata caso per caso: solo ove la risposta sia positiva si potrebbe ipotizzare che il lavoratore che si oppone al vaccino sia inidoneo al lavoro. Ove pure ciò avvenga, non significa ancora che sia possibile il recesso.

Sono molti mesi che, sulla base dei protocolli sindacali, la situazione nei luoghi di lavoro è tornata sotto controllo (almeno in quelli che applicano seriamente le misure di sicurezza, che coinvolgono i rls e i comitati di attuazione, ecc.). Il vaccino migliorerà tale situazione, ed è fortemente raccomandabile una campagna che sostenga l’adesione convinta dei lavoratori. Ove il singolo non accetti il vaccino il datore di lavoro dovrebbe dunque dimostrare l’insufficienza delle altre disposizioni a contenere ragionevolmente il rischio del contagio e dunque che il vaccino sia misura indispensabile per la tutela della salute sua, dei colleghi o del pubblico e degli utenti. Se così fosse, il lavoratore inidoneo perché non vaccinato andrebbe temporaneamente adibito al lavoro a distanza, se compatibile con le sue mansioni, o eventualmente ad altri incarichi con minore rischio di contagio passivo e attivo (potendosi qui valutare anche una temporanea adibizione a mansioni inferiori, attivando gli strumenti che l’ordinamento nette a disposizione a tal fine).

Solo ove tutti questi passaggi diano esito negativo si può porre il problema della inutilizzabilità della prestazione e delle sue conseguenze: che non necessariamente portano al recesso, poiché va considerato che si tratterebbe di una inidoneità solo temporanea, in quanto connessa all’andamento della pandemia (essendo evidente che più saremo prossimi alla c.d. immunità di gregge e meno facilmente potrà affermarsi la natura indispensabile della misura vaccinale). In tal caso potrebbe verificarsi una sospensione del rapporto di lavoro, anche non retribuita, in applicazione di istituti previsti dai contratti collettivi (congedi, aspettative ecc.) o dei principi generali sull’impossibilità solo temporanea della prestazione: il cui esito non è sempre e necessariamente il recesso, dovendo il datore di lavoro privilegiare una soluzione conservativa del rapporto di lavoro ove non dimostri l’incompatibilità con gli assetti organizzativi o l’eccessiva onerosità della soluzione.

Franco Scarpelli fa parte della Consulta giuridica Cgil