Il 18 giugno del 1873, la femminista statunitense Susan Anthony viene condannata al pagamento di una multa di 100 dollari per aver tentato di votare, benché donna, alle elezioni presidenziali statunitensi del 15 novembre precedente. Al giudice che la accusava di aver violato la legge rispondeva: “Sì, vostro onore, ma sono leggi fatte dagli uomini, interpretate da uomini e amministrate da uomini in favore degli uomini e contro le donne”.

“Io non pagherò nemmeno un dollaro per la vostra ingiusta condanna”, dirà di fronte alla condanna alla multa e al risarcimento delle spese processuali, mantenendo la sua promessa. Solo nel 1920, quando lei era già morta, un emendamento alla Costituzione statunitense - l’emendamento “Anthony” - concederà il voto alle donne.  Un primo passo in questa direzione era stato fatto in Nuova Zelanda nel 1893, poi nel 1907 in Finlandia e nel 1917 in Russia.  Per il Regno Unito bisognerà aspettare il 1928.  Nel 1932 il suffragio femminile arriva in Brasile, nel 1934 in Turchia e nel 1944 in Francia. In Cina e India nel 1949, in Messico nel 1953. 

E in Italia?  Punto di arrivo di un percorso lungo e tortuoso, il riconoscimento del diritto di voto alle donne in Italia prende le mosse dallo Statuto Albertino (Costituzione adottata dal Regno di Sardegna il 4 marzo 1848 a Torino), che all’articolo 24 recitava: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi”. Una di queste eccezioni riguardava le donne, anche se non in modo esplicito. Nel 1877, Anna Maria Mozzoni presenta al governo la prima di una lunga serie di petizioni per il voto politico alle donne che sarà bocciata, nello stesso momento le donne che ne hanno i requisiti prescritti dalla legge cominciano ad essere iscritte nelle liste elettorali (nel 1867 il deputato Salvatore Morelli presentava  un primo disegno di legge per consentire il voto alle donne dal titolo ‘Abolizione della schiavitù domestica con la reintegrazione giuridica della donna, accordando alla donna i diritti civili e politici’. La proposta, respinta con voto della Camera dei deputati, sarà ripresentata nel 1875).

Intanto le Corti di appello cominciano a trovarsi nella condizione di dover bocciare il riconoscimento dell’elettorato politico alle donne che alcune Commissioni elettorali provinciali accolgono (la Corte di appello di Ancona presieduta da Lodovico Mortara sarà l’unica ad accogliere nel 1906 la richiesta di inclusione delle donne nelle liste elettorali presentata da nove maestre di Senigallia e da una di Montemarciano. Al terzo e definitivo grado di giudizio la sentenza sarà comunque rovesciata). Così la Corte di appello di Firenze giustificherà il respingimento della richiesta: “Potrebbe avvenire che una maggioranza di donne venisse a formarsi in Parlamento, che coalizzandosi contro il sesso maschile, obbligasse il Capo dello Stato, scrupoloso osservatore delle buone norme costituzionali, a scegliere nel suo seno i consiglieri della Corona, e dare così al mondo civile il nuovo e bizzarro spettacolo di un governo di donne, con quanto prestigio e utilità del nostro paese è facile a ognuno immaginarsi”.

Anche Argentina Altobelli prenderà posizione su La Squilla a favore del voto alle donne, da conquistarsi “non per le viottole contorte delle distinzioni e dei privilegi, ma per la gran via maestra del suffragio universale  concesso a tutti, senza tener conto del sesso, delle condizioni, e anche agli analfabeti” (nel 1904 era stato costituito il Consiglio delle donne italiane, aderente all’International Council of Women. Il Consiglio aveva organizzerà a Roma, in Campidoglio, nel 1908 il primo Congresso delle donne italiane, inaugurato dalla Regina Elena. L’obiettivo è quello di estendere il diritto di voto delle donne delle classi più elevate).

Nel maggio del 1912 durante la discussione del progetto di legge della riforma elettorale, che avrebbe esteso il voto anche agli analfabeti maschi, i deputati Giuseppe Mirabelli, Claudio Treves, Filippo Turati e Sidney Sonnino proporranno un emendamento per concedere il voto anche alle donne. Giolitti vi si opporrà strenuamente, definendolo un salto nel buio. La questione, rimandata all’esame di un’apposita commissione, sarà accantonata.  Dopo la triste parentesi fascista, le prime elezioni politiche in Italia si svolgeranno nel giugno del 1946, quando la popolazione sarà chiamata a votare a favore del referendum istituzionale monarchia-repubblica e per eleggere l’Assemblea costituente (in realtà già qualche mese prima alcune donne erano andate alle urne per le amministrative comunali. In quell’occasione saranno elette le prime donne sindaco della nostra storia).

Il decreto legislativo luogotenenziale 1° febbraio 1945 n. 23 concederà alle maggiorenni di 21 anni il diritto di voto attivo, mentre il decreto legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74 concederà alle donne maggiori di 25 anni il diritto di voto passivo (le uniche a essere escluse dal diritto di voto attivo saranno le donne citate nell’articolo 354 del regolamento per l’esecuzione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza cioè ‘le prostitute schedate che lavorano al di fuori delle case dove è loro concesso esercitare la professione’).

“Un diritto che venne riconosciuto in extremis nell’ultimo giorno utile per la composizione delle liste elettorali, alla fine del gennaio ’45 - ricordava Marisa Cinciari Rodano in occasione della presentazione del libro Le donne della Costituente per la celebrazione del 60° della Costituzione (Roma, 31 maggio 2007) - ma che non fu, come taluno sostiene, una benevola concessione, ma il doveroso riconoscimento del contributo determinante che le donne, con le armi in pugno e soprattutto con una diffusa azione di massa, di sostegno alla Resistenza, avevano dato alla liberazione del Paese”.