Il 6 luglio del 1960 si tiene a Roma una manifestazione delle forze antifasciste e democratiche, vietato dal prefetto poche ore prima dell’inizio del corteo. L'iniziativa sceglie di dirigersi a Porta San Paolo con l'obiettivo di deporre una corona d’alloro, bordata del nastro tricolore, in memoria dei caduti della Resistenza.

La manifestazione viene colpita dalle violente cariche della polizia e dei carabinieri a cavallo, guidati da Raimondo D’Inzeo, che in settembre parteciperà alle Olimpiadi di Roma, conquistando la medaglia d’oro. Contro le cariche a cavallo a sciabole sguainate la folla si difende lanciando i sampietrini, divelti dalle strade e facendosi scudo con i cartelloni pubblicitari.

Ricorderà anni dopo Aldo Natoli: “Si trattava di attraversare il breve spazio, meno di cento metri, che ci separava dalle schiere dei poliziotti che presidiavano la Porta e i varchi che davano accesso al piazzale retrostante. Il contatto e, forse, lo scontro sembravano inevitabili, poiché eravamo ben decisi ad affermare il nostro diritto, offeso, a rendere omaggio a quel luogo simbolico della Resistenza antifascista. Su quella piazza, qualche centinaio di metri sulla destra, vicino alla caserma dei vigili del fuoco, mi ero trovato la mattina del 9 settembre 1943 e avevo sentito fischiare le pallottole; come potevano fermarci ora le camionette della Celere? In schiera ordinata, avevamo fatto pochi passi e ci trovavamo proprio in mezzo al guado, non vi era stato ancora alcun contatto con i cordoni polizieschi, quando avvenne la sorpresa; dalla sinistra, dove era stato ben coperto dietro l’angolo di case e muraglie, irruppe dritto su di noi uno squadrone di carabinieri a cavallo, al galoppo, mulinando in aria non sciabole bensì frustini”.

“Ignoro - racconta ancora Natoli - se sia stato lo stesso mediocre avvocato di provincia che allora sedeva come capo supremo al Viminale, a escogitare questo espediente tattico nuovo per gli scontri di strada a Roma. Io mi ero trovato in una circostanza simile parecchi anni prima, nella campagna di Monterotondo, quando appoggiavo i contadini che occupavano le terre di una grande tenuta, e anche allora ero in compagnia di Lizzadri. In campagna è più facile salvarsi da simili attacchi, alberi, solchi profondi, canali, offrono ripari naturali. A Porta San Paolo eravamo totalmente allo scoperto e non ho dimenticato lo scroscio di nacchere degli zoccoli dei cavalli rimbalzanti sull’acciottolato di sampietrini. Ci sbandammo e gli eroici cavalieri guidati dai D’Inzeo finirono in mezzo alla folla che li accolse con un lancio di proiettili provenienti dal vicino mercato. Ma dietro i cavalieri si erano mossi i reparti motorizzati della Celere, che rastrellavano gli sbandati. Fra questi fu catturato Ingrao che solo più tardi, dopo essere stato identificato in questura, venne rilasciato. Io, insieme ad altri, ripiegai entro il quartiere Testaccio, dove le squadre di poliziotti ci inseguirono e mal gliene incolse, perché colà furono attaccate da ogni parte, anche da finestre e balconi”.

Al termine degli scontri si conteranno settecento fermati e centoventi feriti. “Poliziotti e carabinieri - scrive Giuseppe Sircana, storico e responsabile dell’Archivio storico della Cgil di Roma e del Lazio - obbedendo alle consegne avute, si accaniscono contro i parlamentari. Il deputato socialista Fernando Schiavetti, dopo essere stato malmenato, cerca una via di scampo mostrando la tessera da giornalista a un commissario che gli consiglia:  'Dottore tagli la corda, qui tira una brutta aria!'. Oreste Lizzadri, Pietro Ingrao e altri sono circondati, fermati, insultati come 'assassini',  'servi di Mosca', 'mascalzoni'.  Costretti a salire su un cellulare sotto la minaccia dei mitra, vengono condotti in questura e poi nella caserma del reparto Celere a Castro Pretorio. Appena rilasciati accorrono alla Camera per denunciare il grave accaduto. Anche Emilio Lussu, Menchinelli e l’avvocato Piccardi vengono malmenati mentre diversi parlamentari devono ricorrere alle cure del medico all’ospedale San Camillo o alla infermeria di Montecitorio”.

In occasione del 50° anniversario degli avvenimenti sempre Giuseppe Sircana dava alle stampe il bellissimo volume Un giorno e una vita (edizioni Ediesse). Il libro propone una puntuale ricostruzione dei fatti, una ricca selezione di immagini e documenti, ma soprattutto le testimonianze di chi c’era.

Tra questi Tina Costa, che racconta: “Ero iscritta alla sezione del Pci di Piazza Ragusa. Dal partito era venuta l’indicazione di partecipare a questa manifestazione contro il governo Tambroni e così insieme con altri compagni andai a Porta San Paolo. Non immaginavamo di trovarci davanti la cavalleria di D’Inzeo e quando sono cominciate le cariche abbiamo cercato di difenderci in ogni modo. A un certo punto ci siamo visti i cavalli davanti alla faccia, con le zampe alzate! La paura c’era, però non ti potevi tirare indietro. Finché è stato possibile abbiamo resistito poi ci siamo allontanati.  Insieme ad Anna Maria Ciai e altri compagni abbiamo trovato rifugio in un portone di Via Marmorata. Anna Maria è stata fermata mentre io sono riuscita a salvarmi grazie al mio accento romagnolo. Col mio dialetto ho raccontato al carabiniere che mi ero ritrovata lì per caso e che dovevo andare a Trastevere da mia zia. Allora lui mi ha preso e mi ha accompagnato dal portone fino a piazza  dell’Emporio. Poi mi ha detto di andare tranquilla da mia zia, che abitava davvero a Trastevere. Mi sono salvata perché ho fatto la scema, una scema che non c’entrava niente... A ripensarci mi viene da ridere ancora oggi. Se solo avessero guardavano le mie mani avrebbero scoperto che si erano tutte scorticate per levare i sampietrini dal selciato. Avevo preso i sampietrini come tutti gli altri: e che me ne stavo con le mani in mano? No! Dovevamo difenderci!”.

“Ricordo una giornata difficilissima - racconterà Bice Tanno - di tensione, di botte e anche di sorpresa. Andai a Porta San Paolo con un gruppo di compagni de La Sapienza, della sezione universitaria del partito comunista. Non avevamo assolutamente idea di quel che ci aspettava. Eravamo ragazzi, studenti, impreparati ad affrontare gli scontri di piazza. Certo, sapevamo quel che era accaduto a Genova, leggevamo l’Unità ed eravamo consapevoli del momento difficile, dei rischi che correva la democrazia, però non prevedevamo assolutamente che potesse succedere quello che poi è successo”.

In piazza quel giorno ci sono i parlamentari, i professori dell’università, gli studenti, i lavoratori. Ci sono i vecchi partigiani e tantissimi giovani.

Giovani che, diceva Giorgio Amendola, “avevano meno di cinque anni al momento della Liberazione”. Giovani “cresciuti in questa Italia clericale, corrotta e bigotta. Spesso c’è sembrato che ci giudicassero severamente o che ci sopportassero come rispettabili noiosi brontoloni. Eppure sono giunti all’appuntamento e hanno gettato nella nuova battaglia il patrimonio immenso delle speranze, degli ideali, dell’entusiasmo dei venti anni”.