Il futuro del welfare. Nelle ore in cui si discute della manovra economica, all’interno della quale molti di questi temi sono contenuti, a Lecce va in scena – nel corso delle Giornate del lavoro della Cgil – un dibattito che affronta temi complessi ma ineludibili. Tra cui quello che, forse, angustia di più: avranno mai i giovani una pensione con cui vivere dignitosamente?

Per Roberto Ghiselli, segretario confederale della Cgil, le sfide che impattano sul sistema del welfare sono dirompenti: “Globalizzazione, demografia, migrazioni, denatalità, scomposizione del mercato del lavoro, il ruolo delle donne nella società del lavoro. Alcuni di questi mutamenti stanno mettendo in discussione assetti ed equilibri tradizionali, e determinano paure con le quali ci dobbiamo misurare e che stanno producendo, non sono in Italia, chiusure, diffidenza verso tutto ciò che è diverso”. Per il sindacalista, dunque, il welfare va ripensato per dare risposte nuove a bisogni nuovi: “Penso a come cambiano gli ammortizzatori sociali, all’invecchiamento della popolazione, all’autosufficienza. Su questo tutti sono d’accordo. Il problema è un altro: quale modello? Negli anni sta avanzando l’idea di un welfare non più universale e solidaristico, ma minimale, una sorta di croce rossa. Il resto andrebbe affidato al mercato o al welfare contrattuale. Per noi questo è inaccettabile: il welfare va sì cambiato, ma deve rimanere universale. Livelli, dunque, non minimi di assistenza, ma essenziali in tutta Italia. Questo chiediamo anche al nuovo governo”.

Quanto alle pensioni, per noi “è fondamentale l’unificazione del mondo del lavoro pensando alle nuove generazioni. Questo sistema, costruito solo per risparmiare 1.000 miliardi di euro nei prossimi 40 anni, sta determinando delle esclusioni che non ci possiamo permettere. Bisogna dare risposte chiare”.

Alberto Brambilla, presidente del Centro studi e ricerche Itinerari previdenziali, si è soffermato sul tema della sostenibilità dei conti. “Se noi scorporiamo la spesa per le pensioni da quella per l’assistenza, siamo al 14% circa del Pil, in linea dunque con l’Europa. Questo vuol dire che reintrodurre alcune flessibilità in uscita bloccate dalla Monti-Fornero è possibile”. Più complicato ragionare sulla questione del finanziamento dell’assistenza che dipende da diversi soggetti (Stato, Regioni e Comuni) e rispetto alla quale non abbiamo dati certi. “E tuttavia – ha detto –, se vogliamo creare un welfare nuovo per le nuove esigenze, dinamico e al passo coi tempi, questa anagrafe assistenziale è fondamentale”.

Domenico Proietti, segretario confederale della Uil, ha risposto alle sollecitazioni del moderatore (il giornalista Rai Attilio Romita) sui possibili errori fatti dai sindacati ai tempi della Fornero. “È vero – ammette –, qualche errore lo abbiamo fatto, ma bisogna considerare anche il contesto in cui quella legge maturò. Tuttavia, successivamente abbiamo unitariamente costruito una piattaforma innovativa e su questo dato battaglia. A cominciare dai 160.000 esodati che sono stati salvati e dalle flessibilità in uscita che abbiamo reintrodotto per alcune categorie di lavoratori, a partire da quelli con mansioni gravose”. Il sindacalista sollecita poi il governo ad aprire un tavolo: “Solo così si può fare in modo che quota 100 non peggiori addirittura la situazione attuale”.

Ultima relatrice Maria Cecilia Guerra, docente all’Università di Modena Reggio-Emilia. “Il limite del dibattito attuale sulla previdenza – ha osservato – è che si concentra troppo su singoli elementi, mentre qui occorre pensare e ragionare sul futuro del welfare”. Per Guerra, due sono i temi: come si finanziano le pensioni e come si maturano i contributi: “Assistiamo a una riduzione progressiva della quota del valore aggiunto del lavoro sul valore aggiunto complessivo del paese. Rischiamo di avere un carico eccessivo del welfare sul lavoro. Per questo bisogna spostare il carico del finanziamento dal lavoro al valore aggiunto complessivo del sistema economico”.

Poi c’è un’altra questione importante: “Ci siamo sempre più spostati verso un sistema contributivo, che però produce anche iniquità, perché riflette le difficoltà e le ingiustizie subite nel mercato del lavoro. Insomma: il futuro pensionistico di giovani, donne e precari rischia di produrre anche ulteriori ingiustizie quando andranno in pensione”. Visto che il lavoro cambia, sostiene la studiosa, “bisogna dunque trovare il modo di valorizzare in maniera diversa ai fini contributivi altri periodi della vita delle persone: il lavoro di cura e il tempo passato nella ricerca del lavoro, ad esempio”.