Desta sempre una certa impressione, talvolta commossa, quando un potente del calibro di Marchionne ci lascia. E per giunta prematuramente. Stupiti, forse, da quell’implacabile “livella” che sa essere il destino. Nel sentenziare il suo compimento egualitario, dinanzi al quale anche le più siderali differenze materiali che contrassegnano la nostra vita terrena, i nostri sforzi e i nostri poteri, sfumano inesorabili in nient’altro che “vanità di vanità”. Intempestivi e ineleganti, si sono accavallati commenti e ricordi. Per un uomo che era ancora in vita, e verso il quale una maggiore continenza esternatrice non sarebbe guastata. La sua celebrazione agiografica, emotivamente e strumentalmente brandita contro i suoi avversari di sempre, non può implicare per costoro una abiura delle ragioni che ne determinarono il disaccordo. Come da alcuni si richiede.

Non siamo in grado di giudicare a bilancio la molteplicità delle scelte compiute da questo manager dall’innegabile valore e protagonismo. Ad esempio le sue grandi abilità come uomo della finanza globale e negoziatore di fusioni o accreditamenti, fra banche e capi di Stato stranieri. Non crediamo tuttavia di fargli alcun torto, se in esse vi cogliamo l’essenza stessa del capitalismo attuale. Del suo turbinoso dinamismo, certo; ma anche di tutto ciò che, a ragione, affligge e terrorizza vaste parti delle società avanzate: finanziarizzazione, scatole cinesi della proprietà, delocalizzazioni, automazione in chiave labor saving, precarizzazione del lavoro, aziendalizzazione e individualizzazione dei rapporti di lavoro, disintermediazione della rappresentanza degli interessi. Divari neo-feudali fra remunerazione del lavoro e quella del top-management. Ognuna delle sue scelte, avendone tempo e spazio, potrebbe ricondursi a qualcuna di queste politiche. E al loro disegno generale. Che nel complesso, segna il più grave arretramento che il mondo del lavoro abbia subìto da tempo immemorabile, con uno sbilanciamento dei rapporti di forza come – fascismi a parte – non si vedeva dai primi del Novecento.

Marchionne ha certamente conseguito alcuni successi. Come il salvataggio e il rilancio di Pomigliano e degli stabilimenti di Detroit. Ma dire che “non ha chiuso le fabbriche”, è scorretto; a) perché da noi ha messo fine a Termini Imerese e, soprattutto, b) perché ha preso un gruppo che agli inizi degli anni Duemila contava circa 120 mila addetti in tutto, e lo lascia a quota 62 mila in tutti gli stabilimenti di Fca, Magneti Marelli, Cnh, Ferrari (40.705, solo stabilimenti Fca; circa 85 mila se si includono enti centrali e società commerciali). Che insieme fanno comunque una perdita pari a varie fabbriche messe insieme.

Ci ha voluto far credere che per fare auto competitive, con sistemi socio-tecnici altamente innovativi (Wcm), occorresse sfidare frontalmente un sindacato come la Fiom, e sconfiggerlo definitivamente sul campo. Come aveva fatto Toyota nel 1952 coi suoi sindacati, per poi tenersi quelli collaborazionisti in fabbrica. Non è così. L’intero distretto emiliano dell’auto (inclusi Lamborghini, Ducati, fornitori per marchi tedeschi) – ma anche del packaging, robotica e del bio-medicale – ha prodotto una innovazione uguale se non superiore, non solo senza provare a distruggere la Fiom, ma proprio siglando con essa – che lì gode di maggioranze bulgare – tutti gli accordi di innovazione.

Per perseguire il suo obiettivo ha letteralmente squassato la costituzione materiale e formale delle nostre relazioni industriali. Abbandono di Confindustria e del suo ultra-decennale sistema di accordi; una completa aziendalizzazione tramite un inedito contratto nazionale di primo livello, la NewCo, con riassunzioni talmente selettive (e discriminatorie) da indurre uno statistico anglosassone ingaggiato a processo dalla Fiom a parlare di una “casualità” paragonabile a quella del metaforico terno al Lotto. Ha inteso riconoscere i diritti sindacali solo alle sigle firmatarie dei suoi accordi, a prescindere da una loro misurazione della rappresentatività. Quando solo quest’ultima avrebbe dovuto fondarne legittimamente l’accesso. Pena lasciare all’impresa il potere di scegliersi non solo il proprio interlocutore negoziale, ma persino chi può avere il diritto a fare sindacato nei suoi locali. Una sequenza di atti che ha lasciato sbigottita una larga fetta della stessa dottrina giuslavoristica, e di una magistratura che sui punti essenziali non ha potuto che dare ragione alle proteste della Fiom. Sino alle censure ad opera della Corte Costituzionale.

Oggi nelle sue fabbriche italiane si lavora in ambienti più salubri e accoglienti, ma l’intensificazione del lavoro si è fatta frenetica. Persino nell’indagine della Fim, nel 2014, si ammetteva un quasi azzeramento di quelle naturali “porosità” che consentono alle maestranze di respirare. Una ricerca recente della Fondazione Di Vittorio e della Sabattini conferma e approfondisce questa grave criticità. Usa i team-leader come surrogati aziendali del delegato di reparto, preludendo a una definitiva disintermediazione della rappresentanza. Chiede e ottiene suggerimenti dagli operai, che fanno aumentare i profitti, ma lesina aumenti salariali. La paga-base di una tuta blu, nel suo contratto, è più bassa che in una fabbrica di bulloni che applica il ccnl siglato ora anche dalla Fiom. Certo, c’è la quota variabile. Che però è tale, e dunque aleatoria, non solo semanticamente. Fca è l'unico produttore mondiale di auto che non abbia neppure abbozzato un accordo transazionale di gruppo. Volkswagen, per dire, ne ha stipulati sei, estendendo il suo modello partecipativo pure alla “nostre” Lamborghini e Ducati. I francesi ci hanno gestito qualche ristrutturazione globale. Fca, nulla di tutto questo.

Dicono che si emozionava parlando d’Italia. E che con lui venne sconfitta una “Italietta provinciale”, e chiusa su se stessa. Ma ha spostato la sede legale ad Amsterdam e quella fiscale a Londra. Ha scelto di vivere in Svizzera, ricercando in tutti i casi il massimo di agio fiscale e normativo. Di Fca, l’Italia costituisce oggi – per fatturato, numero di auto prodotte e occupati – una modesta frazione di interesse. Marco Bentivogli sostiene che seppe respingere “i ricatti” (alludendo a quelli, presunti, della Fiom), ma nessuno potrà dimenticare che la cosa che a ciò somigliò di più, fu la sua minaccia di spostare le produzioni in Polonia se al referendum (il primo e unico che mai abbia consentito, sul migliore solco del suo uso in chiave plebiscitaria), avessero vinto i “no” (che pure sfiorarono l’impresa). O quello a Federmeccanica, se non avesse accettato il suo piano di radicale e definitiva americanizzazione della contrattazione, dopo che Confindustria, con un accordo interconfederale del 2009, aveva pure ottenuto margini inediti sulle “intese modificative” in azienda.

Quale bilancio, per tutto ciò? Giudichiamo solo quello sulle relazioni industriali. Ebbene, il suo piano di frantumare il ccnl, per una totale aziendalizzazione (perseguito in concomitanza con l’art. 8 del decreto Sacconi-Berlusconi), non è passato. Gli emuli si contano sulle dita di una mano. E non è passato neppure il suo tentativo di “sfondare” la rappresentanza indiretta (sindacale) con quella “diretta” dei team o del sindacato ancillare. Altre aziende, per nulla inferiori in termini di innovazione e competitività, in Italia e in Europa, dimostrano che si può governare il cambiamento insieme, veramente. Senza pretendere di stravincere, come fece lui. Ebbene, non ha stravinto. E questo, pur nel rispetto che indubbiamente si deve all’uomo, è un dato che vogliamo ricordare a quanti, saltando sul suo carro, pensano di intestarsi – mosche cocchiere – meriti e primati che non hanno mai avuto.

Salvo Leonardi, Fondazione Di Vittorio