Le Regioni in questi anni hanno subito tagli drastici alle risorse e vincoli, spesso inspiegabili, all’esercizio delle loro prerogative. Questo ha determinato il progressivo prosciugamento delle risorse, a partire da quelle per la sanità, i trasporti, l’assistenza, il diritto allo studio, l’infanzia, il lavoro, e l’incremento della pressione fiscale. Stiamo assistendo anche a difficoltà da parte delle Regioni di utilizzare le loro risorse, anche a fronte di avanzi determinati da una gestione virtuosa”. Lo ha detto il segretario confederale della Cgil, Roberto Ghiselli, alla presentazione del Rapporto sui bilanci delle Regioni, realizzato dall’Ires Lucia Morosini per conto del sindacato di corso d’Italia. “Tutto questo – ha proseguito il dirigente sindacale – ha determinato soprattutto la riduzione della spesa per gli investimenti, cosa molto grave in particolare quando sarebbe importante utilizzare la leva degli investimenti pubblici per concorrere all’innovazione infrastrutturale dei territori e per sostenere la domanda interna”.

“È importante – ha spiegato la segretaria confederale della Cgil Rossana Dettori – ridare certezza politica e finanziaria alle Regioni, superare l’incertezza nell’attribuzione delle funzioni nel rapporto con gli enti locali, riaffermando in particolare il ruolo di programmazione delle Regioni, attraverso un raccordo con le altre amministrazioni locali e la partecipazione con le forze sociali, fare in modo che il necessario processo di efficentamento della spesa e di risanamento dei conti non si traduca in una riduzione delle tutele per la popolazione e venga adeguatamente riconosciuta la possibilità di utilizzare le risorse che si liberano per qualificare i servizi e favorire gli investimenti, in un quadro di governo solidale e unitario del Paese”.

L'iniziativa, alla quale ha partecipato anche l’assessore al Bilancio della Regione Emilia Romagna, Emma Petitti, è stata introdotta da Nicola Marongiu, coordinatore area welfare Cgil. L’analisi sui bilanci delle Regioni è stata presentata dal direttore dell’Ires Morosini, Francesco Montemurro.

Lo studio rileva che negli ultimi sette anni, dal 2009 al 2016, la dinamica complessiva delle entrate e delle spese delle Regioni e Province autonome è stata influenzata significativamente sia dalle manovre finanziarie tese alla riduzione del debito e al raggiungimento degli obiettivi della finanza pubblica, sia dagli effetti della crisi economica. “L’andamento delle entrate delle Regioni – si legge – è stato condizionato in primo luogo dal taglio ai trasferimenti e dalle altre misure di responsabilizzazione delle Regioni finalizzate al raggiungimento degli obiettivi della finanza pubblica nazionale, misure che dal 2009 fino al 2014 si sono sovrapposte al parziale cedimento delle basi imponibili verificatosi in alcune Regioni per effetto anche della crisi economica”.

Dallo studio si evince anzitutto la progressiva riduzione delle spese finali da parte delle Regioni, innescata sia dalle manovre finanziarie tese alla riduzione del debito e al raggiungimento degli obiettivi della finanza pubblica, sia dagli effetti della crisi economica, dell’1,5% circa tra gli anni 2009-2015. Il calo di questi sei anni non ha riguardato tuttavia la spesa corrente, i cui impegni nel 2015 superavano del 3,1% quelli del 2009, ma la spesa per gli investimenti diretti, che è crollata del 32% nello stesso periodo. Queste dinamiche segnalano il ridimensionamento delle già compromesse capacità di investimento di un sistema economico provato dalla crisi, ma anche la difficoltà delle Regioni di sostenere interventi anti-crisi e di realizzare le infrastrutture più qualificate. Dalla lettura dei bilanci, infatti, emerge come il risparmio accumulato sia stato impiegato prevalentemente per le operazioni di rientro dal debito e non per il finanziamento degli investimenti diretti (3,2 miliardi in meno tra il 2014 e il 2016).

I dati del 2016 mostrano per la prima volta un leggero calo anche della spesa corrente, determinato dalla riduzione degli impegni di alcune grandi Regioni (Lombardia, Emilia-Romagna, Puglia e Sicilia). Emergono, tuttavia alcune Regioni che hanno mantenuto livelli di spesa sistematicamente più bassi nel corso degli ultimi sei anni (Lombardia, Veneto, Marche e Puglia) ed altre sistematicamente più alti (Abruzzo, Molise, Basilicata).

Per quanto riguarda le Regioni italiane, il risultato di queste dinamiche è stato anche un processo di “sanitarizzazione” della spesa corrente delle Regioni a statuto ordinario: l’incidenza della componente sanitaria sulla spesa corrente è passata in questo gruppo di regioni dal 79,5% del 2009 all’83,3% del 2015, con punte molto alte in Veneto (88,6%), Toscana (87,3%) ed Emilia-Romagna (86,3%).

La rimanente quota di spesa corrente libera da sanità si concentra in pochi settori, in particolare trasporti e organi istituzionali, che in alcune Regioni, come Sicilia e Friuli-Venezia Giulia, incidono con percentuali molto rilevanti, determinando preoccupanti sotto-dotazioni in altri capitoli, se si considera che l’ente Regione sta diventando un gestore diretto di numerose funzioni trasferite dalle Province. Le criticità principali sembrano riguardare le politiche sociali, che assorbono meno del 2% della spesa corrente nella maggior parte delle Regioni a statuto ordinario.

Per quanto concerne le politiche tributarie, alcune Regioni, soprattutto quelle in Piano di rientro, hanno aumentato la pressione fiscale, in particolare attraverso la rimodulazione dell’addizionale regionale all’Irpef, che, per esempio, dal 2012 al 2018, è passata per i redditi medi dall’1,53% al 2,13% in Piemonte, dall’1,73% al 2,73% nel Lazio e dall’1,23% all’1,81% in Liguria.

Nel rapporto particolare attenzione è stata rivolta alla spesa corrente per la sanità che è rimasta praticamente stabile nel 2012-2014 (105,3 miliardi), riprendendo a crescere nel 2015-2016, con un incremento complessivo solo del 2,7% registrato nel 2012-2016. Nello stesso periodo, però, le Regioni hanno ridotto le risorse aggiuntive per il finanziamento dei Lea (Livelli essenziali di assistenza) e quindi la spesa complessiva per la sanità in questo periodo è scesa da 118,1 miliardi a 117,9 miliardi.

La spesa per la sanità è pari al 6,7% del Pil e, secondo gli andamenti tendenziali delineati nella Nota di aggiornamento del Def 2017, è destinata negli anni 2018/2020 a un ulteriore ridimensionamento, fino ad assestarsi al 6,3% del Pil entro il 2020. L’incidenza della spesa sanitaria italiana è ormai superiore nell’area euro solo a Polonia, Spagna, Grecia e Portogallo. Esaminando la spesa pro capite per la sanità (1.858 euro in Italia nel 2016) i divari con le principali economie europee sono notevoli, visto che la spesa sanitaria pubblica pro capite in Francia è pari a 2.840 euro e quella tedesca si eleva fino a 3.511 euro.

Accanto alle criticità collegate alle responsabilità delle amministrazioni regionali hanno agito però anche alcune cause esterne, da ricondursi in particolare allo storico sottofinanziamento del Fondo sanitario nazionale, al basso livello di autonomia tributaria di cui godono le Regioni ordinarie, al parziale cedimento delle basi imponibili delle entrate tributarie verificatosi negli anni di crisi più acuta, nonché alla fase di inasprimento dei vincoli del patto di stabilità, i cui effetti negativi sul piano della spesa hanno peggiorato il quadro di indebitamento delle Regioni (e in particolare degli enti sanitari) più inefficienti.

Parlando di “processo federalista incompiuto”, l’Ires accende un faro sulla capacità delle Regioni "di assolvere la loro missione", anche in vista del trasferimento di loro importanti funzioni e del passaggio del personale delle Province, elementi che "stanno trasformando la Regione sempre più da ente di legislazione e programmazione a gestore diretto di molte funzioni".

Infine il rapporto evidenzia che per effetto dei tagli lineari e del sostanziale blocco delle risorse destinate al personale, dovuti al Patto di stabilità, si sono avuti tagli rilevanti negli organici delle Regioni e una diminuzione del 19,6% delle risorse per le retribuzioni nel periodo 2009-2015, con il conseguente incremento delle spese per consulenze e collaborazioni del 136%.

In conclusione – si legge nella ricerca dell’Ires – “i paradossi e le criticità emersi dalle analisi svolte chiamano in causa processi storici, politici e istituzionali complessi: ma è indubbio che i problemi al centro di questi processi (la transizione al federalismo e la necessità di eliminare la moltiplicazione dei centri di costo, l’adeguatezza delle Regioni ai compiti loro affidati e il nuovo ruolo dello Stato, l’eccessiva differenziazione dei sistemi sanitari regionali in termini di prestazioni rivolte alla popolazione, l’atipicità delle Regioni a statuto speciale, l’incompletezza delle riforme istituzionali e costituzionali avviate negli ultimi anni, e così via) necessitino di risposte adeguate e rapide, in assenza delle quali il rischio di minare lo sviluppo economico e sociale del Paese è molto forte. Non va dimenticato infatti che nel 2015 le Regioni hanno gestito direttamente o indirettamente spese totali per circa 224,7 miliardi, pari a quasi il 13,7% del Pil nazionale calcolato ai prezzi di mercato”.