Fino a oggi la discussione sull’equo compenso dei lavoratori autonomi, professionisti e freelance, obiettivo che trova favorevoli (quasi) tutti gli addetti ai lavori, si è arenata sull’individuazione del criterio o dei criteri con i quali si dovrebbe declinare tale misura.

Mentre gli ordini reclamano la reintroduzione delle tariffe professionali, una parte significativa del mondo associativo è orientata verso l’impiego di parametri da applicare nei rapporti con la Pubblica amministrazione. Poi c'è la posizione di chi, come la Cgil, ritiene che il modo migliore per declinare l’equo compenso sia fare riferimento ai livelli retributivi minimi previsti dai Contratto collettivo nazionale di lavoro.

Fino a qualche settimana fa, inoltre, nell’ordinamento giuridico italiano non esisteva alcun riferimento universale su cui parametrare i compensi dei professionisti: i parametri individuati dai due decreti del ministero della giustizia del 2012 e del 2016, infatti, non solo si riferiscono alla specifica fattispecie della liquidazione giudiziale dei compensi in caso di controversia, ma limitano la propria efficacia sia dal punto di vista soggettivo (vengono considerate soltanto alcune professioni), sia da quello oggettivo (tali decreti identificano soltanto alcune prestazioni).

L’entrata in vigore delle nuove norme sull’impresa sociale (Dlgs. 3 luglio 2017, n.112) cambia improvvisamente, e sorprendentemente, lo stato dell’arte.

In particolare, l’impresa sociale viene qualificata come soggetto che non persegue lo scopo di lucro, né direttamente né indirettamente. Tra le varie fattispecie che il decreto individua come presunzione di lucro vi è anche la corresponsione ai lavoratori subordinati o autonomi rispettivamente di retribuzioni o compensi superiori a una determinata soglia.

Per individuare tale soglia “universale” il legislatore ha definito un criterio unitario identificato nel 140% di quanto previsto, per le medesime qualifiche, dai Ccnl. Tanto per le retribuzioni dei dipendenti come per i compensi degli autonomi. Certo, si tratta di un massimo e non di un minimo, ed il fine non è la tutela dei lavoratori non dipendenti, ma resta comunque la dimostrazione che l'importo dei compensi non è una grandezza incommensurabile rispetto ai contratto nazionale.

Perché il legislatore ha scelto questo criterio? A nostro modo di vedere poiché è proprio l’unico criterio adottabile se si vuole determinare non tanto il valore puntuale di una prestazione professionale ma un limite, un livello oltre il quale tale valore diventa così sproporzionato da far presupporre una indiretta distribuzione di utile.

Chi si trova ad affrontare il dilemma della quantificazione dell’equo compenso deve risolvere un problema analogo. Non tanto individuare il corrispettivo puntuale di ogni singola prestazione professionale, corrispettivo estremamente aleatorio poiché condizionato da un elevato numero di variabili oggettive (che incidono sulla complessità della prestazione) e soggettive (che attengono alla qualità della stessa). Ma piuttosto provare a identificare un livello al di sotto del quale tale prestazione diviene antieconomica per chi la esegue e che, quindi, fa necessariamente presumere una distorsione del normale funzionamento del mercato dei servizi professionali. Quando non una volontà delle imprese di aggirare le norme per abbassare i costi a spese di tutti i lavoratori, dipendenti o meno.

A ben vedere, il dibattito sull’equo compenso trae origine proprio da questo: contrastare la pratica di remunerare le prestazioni dei professionisti sensibilmente meno di quanto, da contratto, un'impresa dovrebbe pagare i propri dipendenti.

Il dibattito sull’equo compenso, infatti, non nasce per determinare il valore di ogni singola prestazione professionale, ma per impedire che un giornalista venga pagato 5 euro a pezzo, un dentista 8 euro per una pulizia dei denti, un avvocato 10 euro a udienza, che un architetto sia chiamato da un bando pubblico (!) a svolgere gratuitamente il proprio lavoro.

E allora ben venga una misura che impedisca tali pessime pratiche: riportare nel “mercato” i professionisti economicamente più deboli costituirà un argine alla concorrenza al ribasso e conseguentemente migliorerà le condizioni di tutti i lavoratori.

Per questo, tuttavia, è necessario che una norma che stabilisca in relazione ai Ccnl il limite sotto il quale la prestazione diventa antieconomica ed il compenso non adeguato (che va comunque accolta con soddisfazione) sia accompagnata dall'apertura di un tavolo ampio, che raccolga tutte le parti sociali, le associazioni, i rappresentanti del mondo del lavoro tutto. Un tavolo che individui i parametri e le specifiche da utilizzare per individuare questa relazione.

Sarebbe questo l'unico modo per evitare che la norma venga considerata come “calata dall'alto” dai diretti interessati e per evitare, inoltre, di trasformare una norma di grande valore in un enunciato di principio aleatoriamente declinabile.

Cristian Perniciano è responsabile della Consulta delle professioni Cgil