Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nel n.3-4 2016 de La Rivista delle Politiche Sociali. Gli abbonati possono leggerlo qui in versione integrale. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla stessa Rivista

Il sistema dei servizi sociali svolge, almeno in teoria, un ruolo fondamentale nelle politiche di contrasto alle diseguaglianze. Laddove i problemi che possono determinare forme di esclusione sociale non siano di natura prettamente economica, i servizi forniscono un sostegno finalizzato ad assicurare la piena partecipazione sociale e il superamento delle difficoltà, prevenendo l’emergere di individui o categorie marginalizzate. Laddove i problemi abbiano natura economica, i servizi sono comunque indispensabili, sia ai fini di contrastare le problematiche che tipicamente si accompagnano al disagio materiale, che di rendere più efficaci gli aiuti monetari concessi, attraverso l’accompagnamento e l’attivazione dell’individuo in stato di bisogno.

La pratica è, tuttavia, radicalmente diversa. Il sistema dei servizi sociali continua a sopravvivere ai margini delle politiche pubbliche, in uno stadio per molti versi primordiale, dove quasi tutto è provvisorio e molto rimane volontaristico, con flussi di finanziamento irregolari e inadeguati, sui quali, peraltro, si scaricano spesso tagli che poco considerano gli effetti sui cittadini. Evidentemente, non sempre e dappertutto è così. In realtà, proprio nei servizi sociali si manifesta una forte disomogeneità territoriale, che costituisce un ulteriore elemento di diseguaglianza, con sostanziali differenze nella spesa pro-capite, ma anche nella tipologia e qualità dei servizi prestati, fra le varie aree del Paese.
I dati confermano come lo scarso sviluppo dei servizi sia uno degli elementi che distinguono il nostro sistema di welfare da quello dei maggiori partner comunitari.

Malgrado il crescente disagio sociale e l’aumento della povertà nell’ultimo decennio, complice probabilmente anche un federalismo che ha privato l’autorità nazionale della capacità di dettare gli indirizzi delle politiche, i finanziamenti ai servizi sociali sono stati prima ridotti, poi stabilizzati a un livello che, comunque, li condanna alla marginalità. Risorse finanziarie un po’ più consistenti, soprattutto negli anni più recenti, sono state invece destinate ai trasferimenti monetari, anche ai fini del superamento di un’altra anomalia italiana, l’inadeguatezza dei sussidi di disoccupazione e l’assenza di un reddito di ultima istanza. Il concentrarsi degli sforzi sulla componente monetaria, tuttavia, se va a contrastare una delle principali cause di diseguaglianza ed esclusione sociale, rischia di non essere efficace, o non efficiente, a fronte della natura multidimensionale del bisogno e della contestuale debolezza dei servizi.

In effetti, i servizi sociali sono tipicamente programmati a livello nazionale o regionale, ma operati a livello locale, mentre la quasi totalità dei trasferimenti monetari (in particolare le pensioni) sono gestite centralmente. La peculiarità italiana si traduce in un andamento della spesa pubblica sociale complessiva (al netto della spesa sanitaria) non troppo diversa da quella degli altri Paesi, ma in una spesa sociale a livello locale di molto inferiore. Peraltro, se a livello di spesa sociale complessiva in rapporto al Pil l’Italia mostra un trend di crescita più sostenuto degli altri Paesi, tale trend è in gran parte determinato dalla crisi del 2008-2009 e dalla successiva, deludente, performance economica del nostro Paese, che ha provocato un significativo aumento della spesa pensionistica, rigida in termini nominali, in rapporto al Pil.

Se, invece, si guarda alla spesa sociale delle amministrazioni locali, la spesa in rapporto al Pil appare in Italia non soltanto inferiore rispetto agli altri Paesi, ma anche sostanzialmente piatta.
Dall’analisi si evince come l’inadeguata e disomogenea fornitura di servizi sociali rappresenti effettivamente un’anomalia italiana e sebbene negli anni più recenti sembra essersi arrestato il processo di riduzione delle risorse disponibili, il livello assoluto della spesa è comunque basso, mentre i servizi non sono in grado di tenere il passo rispetto a una domanda sociale in crescita. Servirebbe, ma non sembrano esserci le necessarie condizioni finanziarie e sensibilità istituzionali, un investimento nei servizi di dimensioni del tutto diverse dalle attuali, in grado di farne realmente un ambito che crei sicurezza, fornendo in maniera certa, qualitativamente elevata e uniforme sul territorio, una serie almeno minimale di servizi.

Angelo Marano, economista e dirigente pubblico, dal 2017 è a capo del dipartimento Affari sociali di Roma Capitale