Quattro firme per rendere la scuola un po’ più “buona”. Ovvero, per cercare di porre argine agli aspetti più deleteri della legge 107, quella che ha definito la “buona” scuola secondo Renzi. Il 9 e 10 aprile, insieme all’inizio della raccolta firme per il Nuovo Statuto e relativi referendum promossi dalla Cgil, è partita anche la raccolta di firme per l’abrogazione di alcuni dei capitoli più contestati della “Buona scuola” del governo. Un’iniziativa non solo della Flc Cgil, ma di una vasta alleanza sociale, con decine di associazioni e organizzazioni, molte delle quali hanno partecipato anche al grande sciopero dello scorso 5 maggio.

Nonostante una certa retorica che tende spesso a far sembrare più complessi di quanto non siano i quesiti sottoposti all’opinione pubblica – come strumento per dissuadere dalla partecipazione – i quattro capitoli che si vogliono sottoporre al giudizio popolare sono in realtà semplici e significativi. Riguardano: il potere riservato al preside nella scelta dell’organico; l’obbligatorietà e il senso didattico dell’alternanza scuola-lavoro; le donazioni private alle scuole (school bonus); il meccanismo di valutazione degli insegnanti che, anche in questo caso, dà un potere quasi assoluto al dirigente scolastico.

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“Nel 2015 abbiamo messo in campo un movimento straordinario contro la legge sulla ‘brutta scuola’ con assemblee, scioperi e manifestazioni – spiega Domenico Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil –. Nonostante questo dissenso così diffuso, il governo con un voto di fiducia ha fatto passare norme che stanno mettendo in discussione il ruolo e la funzione della scuola pubblica. In questo scenario riteniamo giusto far esprimere i cittadini, perché la scuola è un bene comune, un grande patrimonio del paese”. Per Pantaleo la legge 107 andrebbe cancellata integralmente, “ma, siccome non si può, abbiamo deciso di agire su alcuni dei suoi punti più critici, iniqui, e anticostituzionali”. “Vogliamo contribuire a mettere in campo insieme a una pluralità di soggetti un progetto alternativo che parta da un aspetto fondamentale: occorre riprendere a investire nell’istruzione. Il governo dice che ha ricominciato a farlo, ma non è vero. I tre miliardi che si citano sempre riguardano quasi esclusivamente le immissioni il ruolo. Per il resto non c’è praticamente nulla”. Cerchiamo allora di vedere da vicino di cosa trattano i quattro quesiti proposti.

School bonus 
La legge 107 prevede consistenti sgravi fiscali (65% per il 2015 e il 2016, 50% per il 2017) a quelle persone che donano contributi a istituti pubblici e paritari. Il primo dei quattro referendum chiede di abrogare questa norma con la quale, secondo i promotori, si aggira innanzitutto il dettato costituzionale secondo cui le scuole private debbono funzionare “senza oneri per lo Stato”. La contrarietà dei promotori, però, non è solo su questo aspetto, ma riguarda anche la modalità delle donazioni alle scuole pubbliche.

Con la buona scuola le donazioni private non vanno all'intero sistema, avvantaggiando gli istituti più ricchi

“Le donazioni – spiega Pantaleo – non vanno al sistema scolastico, ma alle singole scuole, avvantaggiando così quelle che risiedono nelle aree economiche forti e con le famiglie più ricche, a discapito delle zone più povere e bisognose di interventi”. Se vince il sì, dunque, i cittadini potranno continuare a fare offerte liberali alle scuole, ma tali offerte non andranno ai singoli istituti, bensì al sistema di istruzione statale nel suo complesso che supporterà le situazioni più svantaggiate.

Troppo potere ai presidi 
Sotto questo titolo si possono raggruppare due dei quattro quesiti: quello che riguarda la scelta degli organici e la valutazione dei docenti. Sono due aspetti fondamentali. Rispetto al primo, la legge 107 ha introdotto surrettiziamente la cosiddetta “chiamata diretta”: se vince il "sì il dirigente scolastico non potrà più, a sua discrezione, scegliere e confermare o mandar via dopo tre anni i docenti. L’assegnazione dei docenti alle scuole avverrà, spiegano i referendari, "con criteri oggettivi e senza il ricatto della scadenza". Se invece le regole rimarranno quelle stabilite dalla riforma Renzi, la prima conseguenza è chiara: nascerà una sorta di classifica tra scuole d’élite e scuole di “scarto”, dove andranno a finire i docenti "scartati" dai dirigenti. 

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Ma c’è anche un’altra questione. Come spiega Massimo Villone, costituzionalista, in questo modo si rischia di violare l’articolo 97 della nostra Carta che stabilisce il buon andamento e l’imparzialità della Pubblica Amministrazione: “Si concedono ai dirigenti poteri discrezionali non suscettibili di controllo – spiega –. I presidi, infatti, attingerebbero agli albi territoriali senza essere vincolati ad una graduatoria. Si aprirebbe così la via a pressioni che possiamo facilmente immaginare”. Se si mette il dirigente scolastico “nella sostanziale possibilità di scegliere i suoi amici – aggiunge lo studioso –, non c’è nessuna garanzia che la valutazione sia oggettivamente legata alla qualità del servizio”. Il sistema delle graduatorie, aggiunge Villone, “sicuramente può essere farraginoso e da migliorare, ma dava delle garanzie sia sul piano dei diritti individuali dei lavoratori che su quello della qualità e dell’esperienza”.

Anche la valutazione dei docenti è un tema di cui si discute da anni. La legge voluta da Renzi stabilisce che il preside distribuisce dei soldi a suo piacimento ai docenti. Funziona così. Alle scuole viene dato un bonus (poniamo 20.000 euro), un Comitato di valutazione stabilisce dei criteri (chi sa insegnare meglio, chi ha lavorato di più, chi si è impegnato di più), ma è il preside  che, sulla base dei criteri, stabilisce a chi dare e quanto dare di quel bonus. Si tratta, sostanzialmente, di salario accessorio “concesso” senza passare dalla contrattazione. “Tengo a sottolineare che la scuola non rifiuta l’idea della valutazione – argomenta Marina Boscaino, insegnante e tra le animatrici di Lip, una delle associazioni che ha promosso i referendum –. Quello che rifiutiamo è il principio della valutazione come prerogativa di uno solo, cioè del preside”. In una prima versione del ddl che sarebbe poi diventato legge, il Comitato di valutazione non veniva menzionato; poi è stato inserito, con la partecipazione di studenti (nelle scuole superiori) e genitori (nei gradi inferiori). Ma questo, per Boscaino, non basta: “È pura demagogia – attacca –. Il Comitato indica dei criteri, ma poi alla fine chi decide è sempre uno solo: il dirigente scolastico”.

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D’accordo anche Pantaleo: “Serve un progetto serio di valorizzazione professionale. Non accettiamo l'idea che il dirigente scolastico diventi anche autorità salariale. Il salario va contrattato”. E poi c’è un altro aspetto da segnalare, e cioè l’esiguità delle risorse stanziate (200 milioni): “Con questa disponibilità – sottolinea il segretario della Flc Cgil – si premierà appena il 10 per cento dei docenti e con una cifra quasi irrisoria: 270 euro lordi. A tutti gli altri, che magari fanno le stesse cose e con gli stessi risultati dei ‘premiati’, non rimane niente. Anche questo fa sì che, alla fine, a decidere sia unilateralmente il dirigente scolastico". Per Pantaleo siamo alla presenza di  un modello "che si rifà al modello organizzativo della vecchia impresa autoritaria, non quella moderna che cerca di sfruttare al meglio la professionalità e l'autonomia dei lavoratori”.

Troppo lavoro nell'alternanza 
L'alternanza scuola-lavoro è una modalità didattica ormai tradizionale, che spesso raggiunge risultati eccellenti, soprattutto dopo i tagli alle attività laboratoriali decisi dalla legge Gelmini.  I referendari non chiedono di abolirla, ma di cassare alcune norme peggiorative contenute nella legge 107. In particolare l’obbligatorietà delle ore di alternanza (400 negli istituti tecnici e professionali e 200 nei licei) che rappresenta un colpo inferto all’autonomia scolastica e al diritto di programmare i propri progetti formativi in relazione al territorio, al tipo di utenza eccetera. “Abbiamo una lunga tradizione di stage concordati con le aziende finalizzati a mettere direttamente a contatto i ragazzi con le realtà produttive – spiega Antonello Natalicchio, preside dell’istituto tecnico di Molfetta –. Ma qui si entra a gamba tesa sulla nostra attività di programmazione con un monte ore definito. Che tra l’altro crea difficoltà anche alle aziende partner. Ci rivolgiamo spesso a piccole imprese: con questo monte ore dovremmo chiedere loro di sospendere praticamente la propria attività per formare i ragazzi. Pensate cosa questo significhi per un bar, una pasticceria, dove magari lavorano solo tre persone compresi i familiari”.

L'alternanza scuola e lavoro, per come è concepita nella legge 107, privilegia le necessità dell'azienda rispetto a quelle dell'istruzione

Difficoltà, queste, confermate anche da Gabriella Pettazzoni, insegnante dell’Istituto turistico Varalli di Milano. “Quattrocento ore obbligatorie – racconta – corrispondono a più di un mese effettivo, un bel carico per la programmazione didattica. E che aumenta le difficoltà di trovare le aziende. Prima, con i tirocini, era tutto più elastico, ora in una situazione di crisi come quella che versa il turismo, basti pensare alle agenzie, individuare luoghi di lavori disposti ad assumersi un impegno così gravoso diventa sempre più arduo”. I rapporti, aggiunge la docente, “ li abbiamo soprattutto con piccole realtà, che magari non prendono più di un tirocinante per volta: difficile fare un progetto formativo di questa durata per un’intera classe”.

Le conseguenze di questo obbligo possono essere gravi. Per esempio, dovendo coprire stage di durata così lunga, il rischio concreto è quello dell’abbassamento della qualità del progetto formativo che può arrivare a imporsi sulle necessità della didattica trasformandosi in semplice addestramento professionale. Gli esiti estremi, più volte denunciati dai sindacati, possono far sì che l’alternanza scuola-lavoro diventi nella realtà lavoro gratuito messo a disposizione delle aziende. Tutte cose che, con la scuola, c’entrano assai poco.