Draghi ha rimodulato il “vecchio” Quantitative Easing, allungando la durata (di almeno 6 mesi, fino a marzo 2017) e quindi l’entità degli acquisti (da 1.140 a 1.820 miliardi di euro). Sono questi gli interventi di cui necessitava il Qe (ora 2.0) per produrre quegli effetti che fino a ora sono stati solo un miraggio? Forse no; sarebbe stato necessario intervenire anche sulla composizione degli acquisti operati dalla Bce, ovvero sulle modalità con cui le risorse, ingenti anche se ben lontane da quelle messe in campo dalla Fed al culmine della crisi finanziaria internazionale, vengono impiegate. Ciò per assicurarsi che tali risorse arrivino a stimolare l’economia reale (dando impulso ai consumi e alla produzione), piuttosto che generare profitti per gli intermediari bancari.

Infatti, i mercati non hanno apprezzato il Qe 2.0. Chi aveva comprato titoli di Stato con rendimenti impliciti sotto il -0,3%, convinto di poterli rivendere con profitto dopo le attese mosse della Bce, si è ritrovato con un eccesso di titoli non ammissibili per il programma di acquisti e li ha venduti in massa, facendo crollare i prezzi e determinando un allargamento degli spread.

I meccanismi classici della finanza, tali per cui le banche e gli intermediari finanziari cercano di massimizzare i profitti, hanno in questo caso prodotto un effetto opposto rispetto a quanto auspicato dalla Banca Centrale. Eppure era possibile una reazione che innescasse un ciclo virtuoso, come successe all’epoca dell’adozione dell’Euro; in quel caso i convergency trades, attraverso l’acquisto a termine dei titoli degli stati periferici (i Btp) e la vendita a termine dei i titoli tedeschi (i Bund), contribuirono alla convergenza delle curve dei tassi d’interesse e al successo della fase di avvio dell’Unione monetaria.

Per contro, i mercati hanno apprezzato il recentissimo aumento dei tassi operato dalla Fed, che ha dato il via a un’inversione storica di tendenza e che pone sul piatto della bilancia un altro problema di non facile gestione: il coordinamento e le reciproche ripercussioni tra le scelte non solo della Fed e della Bce ma anche delle Banche centrali di Cina, Giappone e Inghilterra. Nell’ottica dei mercati europei, l’aspetto positivo ingenerato dal rialzo della Fed è quello del rafforzamento del dollaro, e di una sua possibile parità con l’Euro che, accompagnato da prezzi stabili del petrolio, dovrebbe aiutare una ripresa delle esportazioni.

Più inflazione e un paradosso 
L’inflazione resta il principale alleato che i governi dei paesi indebitati hanno per mettere sotto controllo la crescita del debito rispetto al Pil. Purtroppo le scelte della Bce non migliorano il meccanismo (sino ad ora poco efficace) con cui i (tanti) soldi del Qe dovrebbero arrivare a stimolare l’economia reale e, per questa via, innescare una crescita (contenuta ma significativa) dell’inflazione.

Solo se la liquidità immessa nel sistema dalla Bce arriverà ad alimentare consumi e investimenti (nuovi crediti a famiglie e imprese), l’inflazione potrebbe aumentare. Basti pensare che il recente se pur temporaneo aumento del petrolio verificatosi tra marzo e giugno 2015 (che è valso 5-6 miliardi di euro) ha provocato un aumento dell’inflazione di circa mezzo punto percentuale, per rendersi conto di quale potrebbe essere il potenziale dei nuovi 680 miliardi voluti da Draghi.

Le scelte di politica economica, imposte dal rigore tedesco, da sempre ispirato dalla paura dell’inflazione, provocano un processo deflattivo, più marcato nei paesi periferici dell’area euro (ovvero proprio quelli ritenuti bisognosi di “fare i compiti a casa”, quanto a rigore). Al contrario, in Germania, producono crescita dei consumi e dunque inflazione. A livelli contenuti, per ora, ma tali da poter comunque innescare la crescita del differenziale di inflazione tra paesi periferici e cuore industriale dell’Europa. Si tratta uno dei fenomeni più pericolosi che possa colpire un’unione monetaria perché colpisce la competitività relativa dei sistemi industriali ed è stata in passato foriera di peggioramento della bilancia commerciale, disoccupazione e recessione nei Paesi periferici. Questa situazione, alla lunga potrebbe addirittura aumentare il differenziale inflattivo esercitando un’ulteriore spinta alla crescita dell’inflazione tedesca che allo stato resta l’unico mercato attrattivo per gli investimenti.

Il meccanismo di trasmissione 
I limiti imposti dalle rigide regole prudenziali di Basilea alle banche europee rendono difficile l’erogazione di nuovo credito, a meno che la banca non migliori i propri coefficienti patrimoniali cedendo i vecchi crediti, spesso dubbi, alla Bce in cambio di liquidità. Questa è stata esattamente la strategia seguita negli Usa, dove la Fed ha acquistato 2.000 miliardi di dollari di crediti deteriorati impacchettati in Abs (Asset Backed Securities, i famigerati crediti immobiliari cartolarizzati).

Occorre percorrere questa strada anche in Europa, inserendo al contempo delle sanzioni per le banche che non trasmettono la liquidità ricevuta all’economia reale, per rilanciare i crediti a famiglie e imprese. Altrimenti, la liquidità immessa dalla Bce non sarà in grado di contrastare il credit crunch e i Tlrto saranno inutili poiché le banche non hanno nessun incentivo a erogare nuovi prestiti e investiranno questa nuova liquidità in titoli di Stato, rimborso dei crediti e aumento dei depositi presso la Bce (come già sperimentato a più riprese nel corso dell’ultimo anno).

In altre parole, l’attuale disciplina sui requisiti patrimoniali delle banche genera un circolo vizioso dove il vecchio credito “cattivo” blocca l’erogazione di quello nuovo “buono” e incentiva le banche a investire la liquidità ottenuta dalla Bce in titoli governativi, alla ricerca di facili profitti da intermediazione. Occorre quindi risolvere il conflitto tra le scelte di politica monetaria e quelle di vigilanza. Sarebbe auspicabile che nell’eurozona si operasse una revisione della disciplina sui requisiti di capitale delle banche in tema di rischi degli Abs. Occorre concedere alle banche un’opportunità per trasformare le loro perdite su crediti, rateizzandole, con impatto immediato sui loro bilanci, per liberare risorse che possano essere indirizzate verso nuovi investimenti.

Il Qe 3.0 dovrebbe consentire alle banche di portare in Bce, in luogo dei titoli di Stato, i loro crediti dubbi (Npl, Non Performing Loans), impacchettati in Abs. L’idea è semplice: utilizzando la garanzia statale si possono impacchettare i crediti che incorporano anche una quota marginale di Npl e li si possono conferire ad una bad bank che, a sua volta, trova nel Qe uno sfogo naturale per le sue emissioni di Abs. E la quota di Npl impacchettati potrebbe aumentare se alla garanzia statale si aggiungesse il supporto di qualche ente sovrannazionale come la Bei. Gli Stati, ovviamente, per prevenire spiacevoli sorprese per i contribuenti, si dovrebbero dotare di adeguati strumenti di misurazione e monitoraggio dei rischi, per una valutazione “a mercato” delle garanzie.

La finanza, dunque, dovrebbe essere messa al servizio dell’economia reale e i meccanismi classici con cui le banche cercano di ottenere profitti dovrebbero essere governati e indirizzati verso i fini più generali di utilità pubblica definiti dalla Banca Centrale. Qui sta la novità del Qe 3.0. Tecnicamente, si può fare; politicamente, si deve fare, se si vogliono preservare i valori fondanti e l’idea stessa d’Europa.


Marcello Minenna è docente di Finanza matematica alla Bocconi di Milano