In edilizia le donne guadagnano più degli uomini? A vedere i numeri potrebbe sembrare, ma è soltanto un “effetto ottico”: quell’1,1% della forza lavoro edile femminile è per lo più inquadrata in ruoli impiegatizi, quindi con paga superiore al semplice manovale, tipicamente di genere maschile. Per gli altri comparti delle costruzioni invece nessun effetto ottico: il gender gap c’è ed è forte, con un differenziale retributivo che raggiunge il 30% nel comparto del legno.

Storia a parte il comparto del restauro e archeologia, dove c’è una predominante presenza femminile e la prestazione lavorativa più diffusa è la partita Iva, a conferma del fatto che nei settori dove c’è molta forza lavoro femminile l’asticella delle condizioni contrattuali e retributive è già in partenza più bassa.

Ma al differenziale retributivo, racconta Mercedes Landolfi, responsabile di Fille@donna, la rete nazionale delle iscritte e delegate del sindacato di via Morgagni “si aggiunge un differenziale sui temi della sicurezza nei luoghi di lavoro e della formazione professionale, sugli inquadramenti, sulla possibilità di crescita professionale, sulla tipologia di orario e di forme contrattuali”. Come si legge in un recente rapporto sull’occupazione femminile nelle costruzioni realizzato dal Centro Studi Fillea “individuiamo una prima differenza legata agli orari, gli uomini sono quasi esclusivamente impiegati a tempo pieno, mentre per le donne l’opzione del tempo parziale resta molto utilizzata rispetto al tempo pieno, circa nel 38% dei casi. Riguardo alla posizione professionale, tra gli uomini prevalgono le figure dell’operaio (dipendente) e del lavoratore in proprio (indipendente), mentre tra le donne c’è una netta prevalenza delle impiegate”.

Tra le cause, il fatto che “le donne dedicano meno tempo al lavoro e sono meno presenti nel campo professionale a causa dei carichi familiari; scelgono lavori con orari ridotti, sono maggiormente occupate nel lavoro part-time e sono meno disponibili al lavoro straordinario” prosegue Landolfi “dunque la loro carriera professionale è più discontinua. E questo produce un altro differenziale, quello pensionistico, che le donne in Italia già pagano ora ed in futuro pagheranno ancora di più. Retribuzione oraria inferiore e minor numero di ore lavorate nel corso della vita vuol dire pensioni ridotte, con la conseguenza inevitabile che tra gli anziani vi sono e vi saranno più donne in stato di povertà rispetto agli uomini”.

Per Marinella Meschieri, segretaria nazionale Fillea, welfare e contrattazione sono i pilastri di un serio rilancio dell’occupazione femminile, “ma le scelte dei governi sono andate in direzione opposta, negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a un costante e massiccio taglio del welfare e dei servizi: sta qui il peccato originale di una società che continua a negare alle donne di poter coniugare lavoro/carriera e famiglia”.

Se l’Italia non fa più figli, occorre individuare le strategie adeguate per invertire la tendenza, che non sono i bonus bebè, ma investimenti per rafforzare il welfare, cioè più asili nido e servizi per l’infanzia, più servizi per anziani e non autosufficienti, perché solo uno stato sociale inclusivo ed efficiente potrà consentire una crescita dell’occupazione femminile, che non rappresenta solo un traguardo di civiltà, ma un moltiplicatore di occupazione, perché per ogni 100 posti di lavoro femminili se ne generano altri 18.

“Non siamo noi, ma l’Ocse a dire che Pil aumenterebbe almeno del 20%, se riuscissimo a portare il tasso di occupazione femminile al pari di quello maschile – prosegue Meschieri –. Se poi a questo aggiungiamo un’altra statistica, secondo la quale le aziende con presenze femminili ai vertici hanno performance superiori del 56% rispetto a quelle a presenza maschile e redditività del capitale più alto del 41%, la domanda è: perché per far crescere la produttività questo paese anziché investire sull’occupazione femminile abbassa le condizioni di lavoro ed i diritti di tutti?”.

E se cresce la produttività nelle aziende con donne ai vertici, per Meschieri questo accade anche nel sindacato, “lo vediamo a tutti i livelli, nella contrattazione – dall’accordo aziendale fino a quello nazionale – ma anche nella vita e nell’attività quotidiana delle nostre strutture, oserei dire nella stessa “produttività” del sindacato”. A conferma di ciò, per la forte presenza di donne sui tavoli contrattuali e nella rete dei delegati aziendali, Fillea, Filca, Feneal hanno recentemente portato a casa un accordo storico nel legno-arredo in materia di lotta alle molestie e al mobbing.

“Un accordo che definisce i codici di comportamento da adottare in materia, le figure di riferimento cui rivolgersi in caso di molestie o mobbing, le procedure per il perseguimento dei responsabili di queste azioni, sollecitando inoltre le aziende a prevedere percorsi formativi di sensibilizzazione rivolti ai dirigenti”, racconta Meschieri . Siamo in presenza di un accordo di grande importanza, “non solo per il valore dei temi che tocca, ma anche perché esso diviene parte integrante del ccnl, assegnando alla lotta contro molestie e mobbing lo stesso peso e valore delle altre norme contrattuali nazionali”.

Ora, conclude la segretaria nazionale della Fillea, “occorre trasformare in azioni concrete quanto abbiamo scritto; per esempio, diffondendo materiale informativo, discutendone nei luoghi di lavoro per far crescere una diversa cultura improntata sulla parità di genere, sul rispetto e sulla dignità delle persone”. Una strada non semplice, una sfida tutta da costruire e vincere. Le donne della Fillea sono pronte.