Le notizie sono due. La prima è che l’industria metalmeccanica, in Italia, non sta benissimo. La seconda è che questo è un fatto grave non solo per le imprese del comparto e per i lavoratori che in esse sono attivi, ma per l’intera economia del nostro Paese. E ciò perché questo comparto costituisce il cuore e buona parte del corpo dell’industria manifatturiera. Ovvero di quel settore di attività da cui dipende, in misura principale, non solo la nostra capacità di produrre ricchezza e, quindi, benessere, ma la nostra capacità di produrre innovazione e di restare quindi nel gruppo dei paesi che creano futuro.

Ciò è quanto è emerso in occasione della presentazione, avvenuta ieri a Roma, della 132° indagine trimestrale su La congiuntura dell’industria metalmeccanica. Indagine che viene condotta da Federmeccanica in parte analizzando ed elaborando dati forniti da fonti ufficiali (Istat, Inps, Eurostat), e in parte producendo nuovi elementi di conoscenza attraverso una ricerca relativa a un campione di aziende appositamente selezionato.

Cominciamo dunque dalla prima notizia, quella relativa all’attuale stato di salute della nostra industria metalmeccanica. Ebbene, mentre il primo trimestre del corrente anno aveva visto progressi sia sul piano congiunturale che sul piano tendenziale, a partire dal secondo trimestre - parallelamente al riaprirsi di una fase recessiva per l’insieme dell’economia italiana - anche per ciò che riguarda il settore metalmeccanico si è assistito a una nuova discesa in zona negativa. In particolare, nel terzo trimestre (luglio-settembre) la produzione metalmeccanica “è diminuita di un ulteriore 1,5%” rispetto al trimestre precedente e dell’1% rispetto all’analogo periodo del 2013.

Cifre che, da sole, possono dire poco. Ma se ne coglie tutta la portata se si ricorda, come fa Federmeccanica, che le imprese metalmeccaniche del nostro paese producono adesso il 32,6% in meno di quanto producevano nell’ultimo periodo precedente all’insorgere della recessione (1° trimestre 2008) e che, da allora, la capacità produttiva installata nel settore si è ridotta di oltre un quarto.

Tornando comunque ai dati strettamente relativi al terzo trimestre 2014, ne abbiamo visto il lato quantitativo. Purtroppo, però, è forse ancora più preoccupante l’aspetto qualitativo. Bisogna sapere, infatti, che fin qui, in questi lunghi anni di crisi, ciò che ha consentito alla nostra industria metalmeccanica di mantenersi a galla è stata la buona tenuta delle esportazioni. In altri termini, a fronte di una contrazione talora drammatica del mercato interno, è rimasta più a lungo positiva la dinamica delle esportazioni, specie per ciò che riguarda i beni strumentali, ovvero impianti e macchinari. Ebbene, secondo i dati fin qui disponibili, nonostante si sia ormai delineata una ripresa del commercio mondiale, nel terzo trimestre 2014 ci troviamo di fronte a un rallentamento delle nostre esportazioni (quantificato attualmente a un -0,9% rispetto al terzo trimestre 2013).

E veniamo adesso alla seconda notizia. Qui bisogna dire, innanzitutto, che Federmeccanica non si è certo proposta di attenuare o sminuire i caratteri negativi della prima. Al contrario, contemporaneamente alla conferenza stampa di presentazione dell’indagine, nella stessa giornata di giovedì 27 novembre ha tenuto una sessantina di iniziative in altrettanti territori. Ciò allo scopo di lanciare all’opinione pubblica, alle forze politiche e al Governo un vero e proprio allarme.

A tal fine, il Presidente di Federmeccanica, Fabio Storchi, dopo aver sottolineato che l’industria metalmeccanica “è il motore della nostra economia”, ha ricordato che il settore “fattura circa 400 miliardi di euro” e contribuisce “per quasi la metà alla ricchezza prodotta dall’intero settore manifatturiero”. Detto in altro modo, “contribuisce per circa l’8% alla formazione del Pil.”. A ciò Storchi ha aggiunto che per numero di occupati, con circa 1,8 milioni di addetti, l’Italia in Europa è seconda solo alla Germania, avendo da tempo superato “paesi di più antica industrializzazione come Francia e Regno Unito”.

Infine, Storchi ha ricordato che il settore “vende all’estero prodotti per quasi 190 miliardi di euro”, pari a “oltre la metà dell’intero export italiano”. Determinando con ciò “un attivo nell’interscambio commerciale pari a 65 miliardi di euro”, ovvero un attivo “che è pari a più di due terzi dell’intero surplus manifatturiero italiano”. Dando così “un contributo essenziale per pagare la bolletta energetica e il conto delle altre materie prime” che l’Italia deve comperare all’estero. Insomma, per Storchi, “non è retorico affermare che senza il metalmeccanico, e senza la sua capacità di competere, il nostro standard di vita si abbasserebbe notevolmente, perché non potremmo permetterci di acquisire tutti i beni che oggi importiamo e che soddisfano bisogni anche primari”.

Dati noti, si dirà. Il che è vero. Ma messi in fila con uno scopo politico evidente. Affermare a gran voce che “l’Italia ha bisogno di una politica industriale per la Meccanica”. E, appoggiandosi a quanto sostenuto nel maggio scorso dal Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ribadire che “l’aumento degli investimenti (pubblici e privati) è cruciale per la ripresa”.

In particolare, Storchi ha sottolineato che “per gli investimenti privati occorre rendere il contesto più favorevole e aprire nuovi canali finanziari alternativi a quello bancario. E, ancor più, che “maggiori investimenti pubblici in infrastrutture possono invertire la tendenza della domanda aggregata e innescare la ripresa”. Concludendo, “aprire i cantieri porterebbe lavoro e occupazione, quindi fiducia, crescita e sviluppo”, mentre “occorre sostenere gli investimenti privati in macchinari e attrezzature, in ricerca e innovazione”.

Insomma, molto lavoro per le imprese metalmeccaniche. Ma anche molto lavoro per il Governo, se vuole assumere un ruolo attivo nella lotta contro la perdurante crisi economica.

@fernando_liuzzi