La notizia della morte di Steve Jobs fu data al mondo, dal sito Internet della Apple, nella serata di mercoledì 5 ottobre 2011. In Italia era l’una e mezza di notte. Troppo tardi perché venisse scritto qualcosa di significativo sui quotidiani del 6 ottobre. Per questo, a un anno di distanza, sono andato a riguardarmi i giornali del 7 ottobre. Qualche articolo interessante, opera di giornalisti che conoscono bene gli Stati Uniti.

Ma poi un profluvio di commenti encomiastici e fuorvianti, affidati, secondo una pessima abitudine invalsa nella stampa italiana, a intellettuali o a persone comunque famose che hanno il torto di accettare di parlare di argomenti che non conoscono. Ora è vero che la scomparsa di un personaggio carismatico e universalmente noto come Steve Jobs ha dato luogo a commenti fuori misura un po’ in tutto il mondo. Ma da noi si è esagerato. Peggio, si è andati fuori centro.

Trascuriamo il fatto che Mario Adinolfi
– allora blogger, oggi deputato – abbia definito Jobs, su Europa, come “il Leonardo da Vinci contemporaneo”. Ma come perdonare a Dario Fo, premio Nobel per la letteratura, di aver instaurato, sulla prima pagina del Sole-24 Ore, un sobrio paragone tra il pur geniale fondatore dell’azienda di Cupertino e Galileo Galilei? Di fronte a un così augusto eccesso, diventa inutile prendersela con Lorenzo Jovanotti che, su La Stampa, diede mostra di aver scambiato un’opera di alta professionalità comunicativa, come il celeberrimo discorso ai neolaureati di Stanford (2005), quello di Stay Hungry-Stay Foolish, con l’annuncio di un Vangelo tecnologico: “La sua storia racconta che il mondo si può cambiare, e questa è la notizia che non bisogna mai smettere di diffondere, con ogni mezzo, dall’iPad alle carezze”.

Fermiamoci qui e, nel primo anniversario della sua scomparsa, tentiamo di azzardare qualche riflessione a partire dal modo in cui la stampa si è congedata da Jobs. Cosa c’è che non va, in questi elogi funebri? Che non colgono il punto. Per parlare di Jobs, scomodano artisti e scienziati, o alludono alla nascita di nuove religioni. E non inquadrano il padre dell’iMac e dell’iPod nella sua giusta luce. Jobs è stato innanzitutto un imprenditore, nel senso schumpeteriano del termine. Un eroe dell’innovazione. Uno che ha messo insieme, con determinazione assoluta, materie prime, energia, lavoro umano, tecnologie, organizzazione e idee per produrre, in proporzioni di massa, prodotti mai visti prima e venderli a un prezzo tale da realizzare alti profitti.

La prima riflessione è relativa alle cose di casa nostra. I giornali del 7 ottobre 2011 sono l’ennesima riprova del fatto che in Italia, nonostante che il nostro sia un grande paese manifatturiero, non c’è una diffusa cultura industriale. Tale cultura è ritenuta un sapere tecnico e, in quanto tale, viene tenuta separata dal discorso pubblico. Per parlare dell’uomo che ha creato l’impresa che ha raggiunto la più alta capitalizzazione di borsa di tutti i tempi, e che lo ha fatto con una velocità mai vista prima, non vengono convocati economisti o storici dell’industria, ma letterati, cantanti, uomini politici. Con risultati inevitabilmente insoddisfacenti, quanto a capacità di aiutare il lettore a inoltrarsi nella comprensione di fenomeni di per sé complessi. Al di là di questo, le reazioni alla scomparsa di Jobs, se viste in controluce, offrono l’occasione per qualche riflessione che cerchi di andare più a fondo sull’industria in questo inizio di millennio.

I prodotti delle aziende co-fondate o trasformate
da Steven Paul Jobs – Apple, NeXT, Pixar – non sono macchinari industriali nel senso meccanico, tradizionale del termine, né mezzi di trasporto, né prodotti metallurgici o altre cose “pesanti”. Se considerati dal punto di vista del consumatore finale, hanno tutti a che fare con l’uso dell’informatica messa al servizio della produzione o del consumo culturale. Scrittura, lettura e trasmissione di testi (Macintosh, iMac, iPad). Ascolto di brani musicali (iPod, iTunes). Conversazioni e messaggistica telefoniche (iPhone). Estensione delle capacità operative dei propri strumenti informatici (AppStore). Film di animazione elaborati su base informatica (Pixar). Computer per uso editoriale (NeXT).

Tuttavia, sia che tali prodotti vengano usati in ambiente domestico, sia che vengano usati in ufficio o nell’industria culturale, sempre di macchine si tratta. Ma non vengono percepiti come tali. Piuttosto, come estensioni delle capacità comunicative del possessore-consumatore. Ciò ha attenuato la percezione delle imprese che li producono come imprese industriali e del loro fondatore, leader e coproprietario come imprenditore.

Terza considerazione. Jobs ha consapevolmente favorito questa deviazione percettiva. Dopo gli anni del suo esilio, dedicati alla coppia NeXT-Pixar, e dopo il suo ritorno alla Apple (1997), Jobs ha elaborato una sapiente strategia comunicativa, in cui hanno avuto un ruolo fondamentale le mitiche presentazioni dei suoi nuovi prodotti. In questa seconda fase della sua vita alla testa della Apple, Jobs si è trasformato nel personaggio che tutti ricordano, quello che indossava sempre jeans e maglioncino nero a girocollo. Un personaggio che è diventato non solo il primo testimonial dei suoi prodotti, ma quasi un brand che asseverava, con la sua presenza, la qualità dei singoli oggetti via, via sfornati e immessi sul mercato.

Jobs ha quindi lasciato che molti lo scambiassero per un genio del marketing, un abilissimo imbonitore, senza capire che in un’azienda innovativa come la Apple il marketing sta a monte e non a valle della produzione, poiché fa tutt’uno con la progettazione dei prodotti stessi. Anche questo processo ha attenuato la capacità del pubblico di percepire Steve Jobs come un fabbricante. Veniva suggerito che fosse una via di mezzo fra un grande inventore e un benefattore dell’umanità. Quarta considerazione. È impossibile pensare a Henry Ford senza che venga in mente un capannone con dentro la assembly line, la celeberrima, studiatissima e copiatissima, catena di montaggio. Dire Ford, insomma, non vuol dire solo l’auto modello T, ma anche la grande fabbrica che la produce.

Quando si pensa a Steve Jobs, invece, vengono in mente uffici e laboratori in cui stanno chini al lavoro decine di progettisti, in attesa dell’inevitabile lavata di capo da parte dell’irascibile e incontentabile Steve. Ma, dopo la progettazione del prototipo e il suo varo, ci sarà pure, da qualche parte, qualcuno che lo produca in serie. Ecco, questa è l’immagine che non ci viene in mente. E ciò dipende dal fatto che non l’abbiamo mai vista. Il 21 gennaio 2012 il New York Times ha pubblicato un’inchiesta di Charles Duhigg e Keith Bradsher secondo cui i dipendenti della Apple sono 43.000 negli Stati Uniti e 20.000 all’estero. Vi sembrano pochi? E in giro per il mondo vi sarebbero altri 700.000 lavoratori dipendenti da imprese che operano sotto contratto per la Apple.

Il più grosso concentramento
di questi si trova in Cina, nello Shenzhen. Nella cosiddetta Foxconn City, più di 200.000 operai lavorano su turni di 12 ore per 6 giorni alla settimana alle dipendenze dell’ormai famosa ditta taiwanese. “La Cina è vicina”. Questo era il titolo di un film di Bellocchio, anni sessanta. All’epoca si pensava a Mao. Invece, adesso che la guida della Apple è passata nelle mani di Tim Cook, maestro di logistica, Foxconn City è, paradossalmente, molto lontana, fuori quadro. Forse, anche per questo non viene facile pensare alla Apple come a un’impresa metalmeccanica.