Quando disegnano strade e case gli architetti migliori immaginano percorsi di vita, sguardi verso il futuro, idee che poi si innesteranno sul concreto vissuto degli abitanti che dovranno intessere relazioni quotidiane con i luoghi da loro pensati. Sognano ma hanno anche la responsabilità delle realizzazioni. Una condizione, questa, che li accomuna a quella degli scienziati. Kenzo Tange appartiene a questa schiera. È a lui, insigne maestro giapponese allievo ideale di Gropius e Le Corbusier, che l’amministrazione di Catania affidò nel 1970 il compito di progettare Librino: la città nuova e futuribile alla periferia sud-ovest di Catania, la città satellite da 70.000 abitanti in tutto autonoma e autosufficiente che doveva risolvere la pressione demografica della città etnea. Quarant’anni dopo il sogno Librino, l’orgoglio razionalista di pensare spazi urbani all’avanguardia e in cui l’estetica delle costruzioni sia giustificata dalla loro funzionalità, sembra svanito. Oggi questa “new town” è diventata, seppur con una buona dose di semplificazione, simbolo di degrado e fallimento. Perché a Librino, a parte l’infrastrutturazione primaria, manca ancora tutto: servizi, negozi, centri di aggregazione, spazi culturali agibili, esercizi commerciali, collegamenti efficaci con Catania. Ampiamente diffusi, invece, i segni tipici del degrado di tante periferie urbane: forte abbandono scolastico, diffusi fenomeni di devianza, intere zone in mano agli spacciatori. È una storia che l’urbanistica delle grandi città conosce bene; è la storia di Corviale a Roma e delle Vele a Napoli. Promesse grandi come pietre cadute nel vuoto o quasi. Eppure Librino una sua ricchezza la possiede. Quella di un tessuto sociale ricchissimo, fatto di cooperative, associazioni, istituti scolastici e sindacati. Soggetti attivi sul territorio che, insieme, hanno recentemente redatto una Piattaforma per Librino, con l’obiettivo di dar vita a una “stagione di aperto e serrato confronto per disegnare un percorso di trasformazione sociale” attraverso il diretto e partecipato coinvolgimento dei suoi abitanti e con una serie di proposte che attengono ai concreti contenuti del vivere quotidiano.

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Il Palazzo di cemento
Arrivo a Catania in una giornata caldissima. I miei accompagnatori mi portano subito a vedere il simbolo del degrado di Librino: il cosiddetto Palazzo di cemento. Un enorme ventre grigio bucherellato, abitato da poche famiglie di abusivi disperati che vivono in stanzoni fatiscenti, umidi e in condizioni igieniche del tutto precarie. A presiedere il perimetro del palazzo vedette e spacciatori. È mezzogiorno, c’è il sole, ma l’attività di smercio di droga è in pieno svolgimento. Il Palazzo di cemento è lo stigma che ogni librinese porta inciso sulla propria pelle come una condanna. È il luogo comune da cui deve difendersi e che però non può negare: perché sta lì, enorme, buio e svettante. Ai piedi del palazzo un enorme teatro mai completato: una delle tracce dell’utopia di Librino. Sara Fagone, dirigente della Fillea e responsabile della sede Cgil di Librino, ci racconta che a ogni elezione arriva un politico a inaugurarlo. Poi se ne va, passa l’elezione e il teatro viene richiuso. Sara non ama il Palazzo, ci dice che Librino non è solo questo (e in effetti non lo è), però intanto ci porta subito lì, per togliersi quella spina. La sorpresa, però, è che anche quel pezzo degradato di viale Moncada nasconde una realtà diversa. Offre subito la chiave di lettura di questo territorio: luci e ombre perennemente intrecciate tra loro. Di fronte al Palazzo di cemento c’è infatti una piccola costruzione colma di vetrate, quasi trasparente (potremmo chiamarlo il Palazzo di vetro?), dove in perfetta antitesi con il buio del colosso dirimpetto si vede tutto quello che accade al suo interno. In questo edificio ha sede il centro della Caritas Talità Kum. Talità Kum significa: “Fanciulla, io ti dico alzati”. Il centro accoglie tra i 90 e 100 minori ogni giorno, fa recupero scolastico, organizza laboratori di pittura e creatività varia. Propone costanti e vitali alternative a chi magari ha il padre in carcere, la madre assente o, più semplicemente, vive in un quartiere in cui gli spazi di socializzazione non esistono. Giuliana Gianino, la responsabile del centro, è un fiume in piena: “Cerchiamo di portare a questi ragazzi, che spesso abitano in palazzi grigi e fatiscenti, i colori della vita. Cerchiamo di tirare fuori il bello che è in loro”. Gli operatori di Talità Kum hanno organizzato una festa in piazza proprio nel giorno della nostra visita. Esattamente davanti al Palazzo di cemento. Un’occupazione pacifica, scandita da canti e danze, che si svolge in maniera surreale sotto gli occhi vigili – e anche divertiti – di alcuni giovani spacciatori abbarbicati sui muretti intorno.

Siamo lì a riprendere con la telecamera la festa quando incuriosita si avvicina una bambina che chiameremo Cettina. È appena stata bocciata in quinta elementare; la maestra, racconta, voleva promuoverla ma il padre le ha consigliato di non farlo, perché non “andava bene ed è stato giusto così”. Cettina parla in catanese stretto, con qualche difetto di pronuncia; non è facile comprenderla. Le chiediamo cosa vorrebbe fare da grande. Risponde: “Non capisco cosa vuol dire questa domanda”. Insistiamo e allora risponde: “Niente, starò con mio marito”. Vuoi figli? “Sì, ma solo uno, un maschietto”. Scopriamo che ha perso da poco un fratellino di quattro mesi. Alla domanda “che cosa fa tuo padre”, non risponde. Cettina parla già come una grande che riduce le sue ambizioni alla scala delle esperienze già vissute. Ma è molto allegra, chiede in continuazione caramelle e non si separa mai da un cellulare a forma di orsetto. Cerca gli adulti, ti si struscia continuamente addosso, è curiosa. Ancora Giuliana: “Crediamo che questi ragazzi, nonostante tutto, abbiano una carica e un’energia che può aiutare a costruire un quartiere dove sia bello vivere e dove non sia più così facile essere costretti dalle circostanze a sbagliare e a diventare magari un piccolo pusher o uno spacciatore”.

Il sogno di Tange
Quando arrivò a Catania Kenzo Tange rimase colpito dalla particolare bellezza di queste terre. Così scrive nella sua relazione di presentazione del progetto: “Quando visitai il luogo per la prima volta ammirai quel bel terreno collinoso e decisi di fare qualcosa per utilizzare la topografia, in modo da fondere l’ambiente umano con quello naturale. L’idea che sviluppammo era una completa struttura collettiva, consistente in un asse verde centrale, dal quale si diparte una rete verde che organizza tutto il complesso”. Quel paesaggio così ammirato dal maestro giapponese lo ricorda ancora assai bene Francesco Guzzetta, 68 anni, memoria storica del quartiere, che si sbraccia dal cortile della masseria Buonaiuto da cui si domina una bella porzione della “città nuova”: “Lavoravo con mio padre che stava a mezzadria. Queste zone si chiamavano «terre forti», per la gradazione decisa del vino che usciva da quelle uve. C’erano solo viti, mezzadri e case basse. Il lavoro era molto faticoso e si guadagnava poco. Così dal ’69 sono andato a lavorare nelle ferrovie. Tutti questi palazzoni prima non c’erano, sono arrivati solo dopo gli espropri delle terre effettuati per realizzare la nuova Librino”. Tange disegnò la sua nuova città organizzandola in dieci quartieri (ciascuno con centri a scala di vicinato, servizi e polo di quartiere) collegati tra loro da sentieri pedonali e continui per i pedoni (le “spine verdi”) e un sistema veicolare ad anelli. Librino doveva essere una città immersa nel verde: parchi urbani, aree agricole, spine verdi. Di tutto ciò non resta che una labilissima traccia. Le spine verdi, per esempio, sono in totale abbandono, ricoperte di polvere e sterpaglie e non frequentate da nessuno, se non per i traffici più loschi. È una bestemmia affermare che se il verde non è curato, allora è meglio il cemento? Visto dall’alto il sistema veicolare ad anelli rende ancora più esplicita la frammentazione di Librino, lo scollamento dei singoli quartieri, la mancanza di tessuti connettivi: i nuclei abitati sembrano tanti spruzzi di cemento estranei l’uno all’altro. L’effetto è amplificato anche dalle politiche (meglio, le non politiche) abitative che si sono succedute negli anni: via via hanno costruito a Librino Iacp, cooperative, privati e il Comune di Catania. Per non parlare dell’abusivismo imperante. Il tutto senza uno schema o un disegno o almeno uno spicciolo di logica. Bei comprensori di cooperative – dove si svolge anche una ricca vita sociale – convivono vicino a palazzoni anonimi magari occupati da abusivi. Altrettanto eterogenea è la sua popolazione: vecchi agricoltori, impiegati, operai, sfollati da quartieri storici di Catania tipo San Berillo. Tra questi fallimenti urbanistici e il degrado sociale di certe zone del quartiere il collegamento c’è ed è provato. Secondo uno studio dell’Università di Catania, il tasso di devianza e microcriminalità aumenta quanto più è alto lo scarto tra la realizzazione dei palazzi e quella delle infrastrutture e dei servizi.

La piattaforma per Librino
Chiedersi se la responsabilità di tutto questo sia di Tange, che non seppe prevedere (come forse avrebbe dovuto) gli esiti concreti delle sue idee, o del piano di zona che attuò il progetto nel ’76 (ma con significative varianti), o soltanto delle amministrazioni pubbliche che non hanno realizzato quanto previsto, è forse questione accademica. Più urgente domandarsi cosa fare. La piattaforma per Librino prova a dare una risposta. Non solo individuando cose concrete su cui intervenire (viabilità, servizi, centri d’incontro e aggregazione, scuole, sicurezza) ma, soprattutto, proponendo un metodo: disegnare un percorso di trasformazione sociale partecipata, di cui siano protagonisti gli abitanti stessi, e arrivare all’istituzione di un tavolo di concertazione unico con l’amministrazione che, come spiega Giusy Milazzo, della segreteria della Camera del lavoro della Cgil di Catania, “punti a rivedere un piano di zona che ha ormai più di trent’anni e dunque va riattualizzato, riempito di contenuti nuovi perché oggi la concezione dell’abitare è cambiata”. Un ruolo importante in questa mobilitazione, va detto, deve essere riconosciuto alla Cgil e alla Fillea di Catania che già dal 2005, in una strategia di reinsediamento territoriale, hanno aperto una sede proprio a Librino. “Volevamo dare al quartiere qualcosa di più, che non fosse solo la risoluzione dei pure importanti problemi dei singoli – spiega Sara Fagone, la responsabile della struttura –. Così pian piano la sede è diventata un luogo d’incontro dove, in mancanza di altri spazi, la gente veniva a raccontarci i problemi del quartiere e a prospettare soluzioni. La piattaforma per Librino è nata anche da questi incontri”. Nella sede della Cgil si riuniscono i membri del Comitato Librino attivo: “Da anni – racconta Rosetta Regola – chiediamo invano al Comune un luogo dove incontrarci. Allora ci riuniamo nella Camera del lavoro e discutiamo. Di noi e dei problemi del quartiere e del fatto che nel cambiamento bisogna crederci e marciare uniti”.

I giovani e il futuro
A Librino vive il 17 per cento della popolazione giovanile di Catania. Nonostante questo, per loro manca quasi tutto, a partire dalle scuole superiori. Sono tanti, a Librino, i giovani che sognano di cambiare il loro quartiere. Leandro Perrotta, 24 anni, ha fondato insieme a un gruppo di amici un giornale, La Periferica, che tira 5.000 copie: è fatto dalla gente del luogo e parla di tutto ciò che a Librino succede. “Vivo a Librino, o meglio, dormo a Librino – dice con amarezza –, perché il resto, studiare e lavorare, lo faccio fuori”. Damiano Buda è ancora più giovane; ha 22 anni e abita qui dal ’90, da quando cioè i genitori, racconta, furono attratti dal sogno “futuristico” del quartiere nuovo. Damiano lo incontriamo fuori Villa Fazio, una vecchia masseria che era stata ristrutturata e adibita a luogo di ritrovo per i giovani. Da qualche anno è stata completamente abbandonata dall’amministrazione. Il campo polisportivo è totalmente dissestato, cartacce ricoprono ovunque sterpi riarsi; dentro e fuori materassi e lacerti di indumenti a testimoniare un passato assai recente di bivacco per disperati. “Cosa voglio? – si chiede mentre ci mostra tutto questo –. Che che le istituzioni la smettano di considerare le periferie solo come un problema; vorrei servizi e luoghi di ritrovo, magari anche una semplice piazzetta. Vorrei che Librino non fosse più un quartiere dormitorio”. Damiano è la prima persona, tra quelle che abbiamo incontrato, a parlare esplicitamente di “periferia”. L’esatto contrario di quello che la città satellite di Librino doveva essere nell’idea del suo ideatore. Occorre fare presto, allora, per non disperdere quello che ancora c’è di buono nel sogno di Tange.