Il testo che pubblichiamo di seguito, una sintesi dei contributi principali alla discussione sugli articoli 1 e 3 della Costituzione, è tratto da «Il patto degli italiani. La Costituzione. Di Vittorio e il sindacato. Il dibattito su diritti e lavoro», un supplemento di Rassegna sindacale (n. 21, 2005) – curato da Giovanni Rispoli, con la prefazione di Guglielmo Epifani – ideato in occasione del centenario della Cgil.

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”; e ancora: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori allorganizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Se si vuole andare ai caratteri decisivi della nostra carta fondamentale, a ciò che fa di essa uno dei testi costituzionali più avanzati nell’Europa del secondo dopoguerra, è sicuramente a questi due precetti che bisogna tornare: al primo comma dell’articolo 1 e al secondo comma dell’articolo 3 (strettamente legato, quest’ultimo, al comma che lo precede: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge” ecc.). Sul loro significato, sulla loro effettiva realizzazione nel corso degli anni – e sino ai nostri giorni –, su diritti e Costituzione, in altre parole, finora tanto si è detto e scritto. Qui vogliamo ricordare, e riportare, alcuni dei passaggi principali del dibattito che si svolse in seno alla Costituente.

Fondata sul lavoro”
Cominciamo allora dal primo articolo. Alla formula finale si giunse dopo una discussione che riguardò essenzialmente tre diverse proposte: quella delle sinistre, avanzata da Togliatti (“L’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori”); la proposta democristiana, illustrata da Fanfani, che poi sarebbe diventata la formula definitiva (“Repubblica democratica fondata sul lavoro”), quella del leader repubblicano La Malfa (“Repubblica democratica fondata sui diritti di libertà e sui diritti del lavoro”).

La questione su cui si appuntò gran parte del dibattito fu il rischio, intravisto nella proposta comune dei partiti comunista e socialista, che l’articolo 1 della Costituzione potesse assumere un significato classista. Vediamo di seguito come Giorgio Amendola, il 20 marzo 1947, in assemblea plenaria, difese la formula delle sinistre.

Amendola e la formula delle sinistre
“Le obiezioni, le critiche, e anche le esitazioni e le preoccupazioni che sono state avanzate, si possono dividere in due gruppi: quelle mosse da oratori di parte liberale e qualunquista, e che sono obiezioni di merito (…); e quelle espresse da altri colleghi di parte democristiana, che (…) hanno anche presentato un emendamento per cui la Repubblica democratica dovrebbe essere ‘fondata sul lavoro’, ma che esitano ad accettare l’emendamento da noi proposto nella forma chiara e semplice di ‘Repubblica democratica di lavoratori’.

“Dirò che le obiezioni più sostanziali, di merito, che ci sono state opposte dagli oratori di parte liberale e qualunquista non mi hanno sorpreso. Non si può andare d’accordo con tutti. In certi casi si deve anzi non andare d’accordo, quando si parte da presupposti così lontani e diversi.

“Questa opposizione ci fornisce anzi la controprova della giustezza della nostra tesi, ci prova, ancora una volta, la necessità da noi avvertita che fin dal primo articolo sia espresso, in modo chiaro, semplice e popolare, e nello stesso tempo solenne e lapidario, il carattere della nuova Costituzione, il carattere che la precisa politicamente e storicamente, il carattere popolare e antifascista che essa deve avere, dopo la tragica esperienza vissuta dall’Italia nell’ultimo ventennio.

“Gli argomenti opposti dai colleghi liberali e qualunquisti, in sede di Commissione ed anche qui, sono tolti dal bagaglio dottrinario del vecchio liberalismo, per il quale ogni limitazione delle libertà economiche dei singoli appare anche come una limitazione delle libertà politiche, e per il quale ogni concreta specificazione storica e sociale del concetto di democrazia appare non come un arricchimento della democrazia, ma come una sua limitazione.

“Com’è melanconico ricordare oggi, di fronte a queste posizioni, i propositi espressi da molti amici liberali negli anni della cospirazione, quando essi riorganizzarono nuovamente il loro partito e quando, nelle lunghe discussioni che hanno intessuto la nostra vita di cospiratori, si affannavano a precisare che il loro non era un ritorno al vecchio liberalismo, ma l’affermazione di un nuovo liberalismo che si alimentava di nuove concezioni sociali; che il liberalismo non voleva dire necessariamente liberismo, (…) non voleva dire libertà per i monopoli, ed il liberalismo poteva essere accompagnato da una politica di solidarietà sociale.

“Non so se gli amici di allora, che in questo modo difendevano la linea di un nuovo liberalismo, se ne siano andati o siano ancora rimasti in quello che si chiama ancora il partito liberale.

“Certo è che di queste affermazioni e di queste ansie sincere, che ho conosciuto allora in molti amici liberali, oggi non appaiono più tracce in questo ritorno alle concezioni dottrinarie del vecchio liberalismo.

“Non voglio riprendere in questa sede una discussione che altri, con molta autorità, hanno già svolta, né riprendere una polemica che per venti anni, quando il fascismo ci toglieva la possibilità di agire, apertamente, ci ha sufficientemente occupati. La polemica interna dell’antifascismo in venti anni è stata, infatti, sempre in questa contrapposizione fra comunismo e liberalismo, tra socialismo e liberalismo; e ci sembrava, in quel dibattito, essere arrivati a conclusioni che avrebbero potuto permetterci, pur nella differenza di posizioni ideologiche, di lavorare insieme alla ricostruzione democratica del nostro paese.

“Ma queste discussioni sono oggi cosa vecchia, perché oggi, in fondo, dietro a questa ripresa dottrinaria degli argomenti del vecchio liberalismo c’è la sostanza politica della nuova situazione italiana e della funzione che in essa si è accinto ad assolvere il partito liberale. Vi è, infatti, in questa opposizione al nostro emendamento, (…) ed all’affermazione che la base della Repubblica è il lavoro, non tanto l’eco di preoccupazioni dottrinarie, quanto l’eco di preoccupazioni ben più concrete, le preoccupazioni di quei ceti che vedono come da questa formulazione apposta all’inizio della Costituzione dovrebbero derivare per essi delle conseguenze pratiche che li colpirebbero nei loro reali interessi privilegiati.

“Vi è in questa posizione non tanto l’eco delle vecchie posizioni dottrinarie, quanto l’eco delle preoccupazioni dei grandi proprietari agrari che temono le riforme agrarie, dei grandi monopolisti che temono la riforma industriale, le nazionalizzazioni ed i consigli di gestione; l’eco delle preoccupazioni dei grandi affaristi e degli speculatori che temono che una Costituzione che si inizia con le parole chiare e precise di ‘Repubblica democratica di lavoratori’ sia una Costituzione che apre la via a quel rinnovamento sociale ed economico che essi non vogliono, perché colpirebbe i loro interessi privilegiati, le basi delle loro posizioni egemoniche da essi occupate nella vita del Paese.

“Questa è la sostanza politica che sta alla base del dibattito sull’articolo 1, ed essa si collega con quanto sta avvenendo nel Paese (...).

“Il popolo ci domanda che la Costituzione italiana sia una Costituzione che possa impedire ogni ritorno di fascismo, sia una Costituzione che dia all’italiano garanzie di piena e sicura libertà (...).

“La sola garanzia valida che può essere data al popolo italiano, giustamente indignato e preoccupato, la sola garanzia seria di libertà e di democrazia può essere fornita da quelle misure che impediranno che nella vita del Paese i gruppi privilegiati che ieri hanno dominato possano continuare a dominare; e queste misure concrete – riforma agraria, riforma industriale, piano economico, consigli di gestione – trovano il loro presupposto nella formula che noi domandiamo sia proclamata all’inizio della Costituzione, quale orientamento del nostro lavoro come guida ed orientamento per la nuova via che il popolo italiano dovrà seguire, per la nuova via che sarà aperta dalla Costituzione che stiamo elaborando.

“Oltre questo gruppo di opposizioni e di critiche, altre obiezioni ci sono mosse dai colleghi della Democrazia cristiana. Molti di questi hanno sentito con noi che ormai, di fronte all’esperienza vissuta nell’ultimo ventennio, i diritti della persona umana non possono essere garantiti soltanto sul piano politico, ma vanno garantiti anche sul piano economico e sociale. Essi quindi comprendono la necessità che il nuovo ordinamento democratico sia basato sul lavoro e riconosca i nuovi diritti del lavoro.

“Tuttavia, pur partendo da queste premesse, essi esitano ad arrivare alle stesse conclusioni. E in sede di Commissione si sono pronunziati contro l’emendamento da noi proposto. Non mi sembra fondato il timore che è stato espresso, che la specificazione ‘di lavoratori’ possa conferire un carattere classista alla Costituzione (…).

“Perché, che cosa è la vita della Nazione se non la storia di coloro che lavorano e fanno col loro lavoro, col loro ingegno, che l’Italia sia il Paese che è, col suo volto cesellato da innumeri generazioni, il Paese che noi abitiamo, con le terre lavorate e le città e i monumenti e le fabbriche, tutto frutto del lavoro e dell’ingegno italiano?

“Perché dunque, amici della Democrazia cristiana, questa esitazione? Perché questa perplessità di arrivare alle conseguenze logiche, dalle premesse da cui siete pure partiti?

“Io vedo in questa esitazione, in questa incertezza, un altro episodio, un altro esempio, di quello che io chiamerei lo stile democristiano, il carattere della vostra azione politica, il carattere dell’azione politica di un grande partito sul quale pesano tante gravi responsabilità e dal quale dipende invece tanta parte dell’incertezza e delle difficoltà stesse in cui si travaglia la nuova democrazia italiana.

“Un grande partito che afferma alla base del suo programma le aspirazioni dei lavoratori ad un profondo rinnovamento sociale, ma che, quando si tratta di passare ai fatti che queste premesse comandano, allora esita, si arresta, fu un passo avanti e poi due in dietro.

“Ve ne ho dato la prova: ed è in questo primo articolo. Perché non venite con noi alle conclusioni che derivano delle premesse da cui dite di partire? Voi create così quello stato di incertezza e di malessere in cui si dibatte attualmente la democrazia italiana nel nostro Paese, e togliete al nostro Paese quella prospettiva, quella certezza, quell’entusiasmo, di cui esso avrebbe bisogno in questo periodo di difficile ricostruzione democratica, perché non si possono vincere le grandi battaglie politiche ed economiche che ci attendono se tutta la democrazia italiana non è pervasa da una grande sicurezza, da una grande fede, da un grande entusiasmo nel suo avvenire. Voi quest’entusiasmo lo spegnete con la vostra esitazione, con la vostra perplessità, e causate in questo modo quell’arresto, quella paralisi, che noi dobbiamo superare, se vogliamo che la democrazia italiana possa vivere e prosperare (...).

“Non abbiate paura, colleghi, e se credete veramente che il lavoro è il fondamento della Repubblica, non nascondete, vergognosamente, pudicamente, questa affermazione nelle pieghe di un capoverso che pochi leggeranno; ma proclamatelo solennemente, direi orgogliosamente, nella prima riga della Costituzione, in una dichiarazione che tutti gli italiani conosceranno e che dia a tutti i lavoratori la certezza o la fede nell’avvenire democratico del nostro Paese.

“E io credo che una nostra affermazione concorde – che è possibile – su questo primo articolo avrebbe un grande significato e illuminerebbe i nostri lavori; permetterebbe di affrontare insieme le difficoltà che incontreremo nei prossimi articoli. Affrontiamo e superiamo insieme questa superabile difficoltà che ci troviamo davanti al primo articolo, e potremo fare della buona strada anche negli altri articoli.

“Questa discussione sul primo articolo non è accademica; esprime politicamente il significato dei nostri lavori e segna l’indirizzo generale che noi vogliamo dare alla nostra Carta costituzionale. C’è stato in Italia, in questi anni, un grande rivolgimento politico e sociale, si è iniziato un grande processo rivoluzionario. Il nostro compito è di creare una Costituzione che permetta a questo processo rivoluzionario di svolgersi sul terreno della legalità democratica, per operare nel rispetto della legalità le necessarie modifiche della nostra struttura sociale (...).

“(...) oggi le masse popolari hanno cominciato a partecipare alla vita politica del paese e alla soluzione dei problemi nazionali. Si sta compiendo così quella che è stata la più grande aspirazione dei democratici sinceri, che hanno combattuto in altri momenti della vita italiana ed arriva a compimento il grande moto unitario iniziatosi nel Risorgimento. Anche nel nostro Mezzogiorno, tormentato e dolorante, i lavoratori, scuotendo finalmente le catene della loro oppressione, sono usciti finalmente alla luce della lotta politica cosciente e consapevole, sono usciti dall’isolamento, si sono uniti e organizzati; e lottano per strappare la terra ai proprietari latifondisti e per crearsi possibilità di vita più umane.

“Non chiudete gli occhi, o signori, su questo fenomeno, su questo movimento, su questa entrata delle masse popolari nella vita politica della nazione. Questo è un fatto ormai permanente della nostra vita nazionale, il fatto rivoluzionario che è la base incrollabile della nuova democrazia che abbiamo costruito e che stiamo rafforzando. Uomini, donne, giovani, lavoratori si uniscono nelle loro organizzazioni sindacali, professionali, culturali, discutono i loro problemi, partecipano giorno per giorno alla soluzione dei loro problemi particolari e dei più generali problemi nazionali e danno finalmente allo Stato democratico italiano quel consenso, quel legame col popolo, che è mancato nel 1922 e la cui mancanza fu, appunto, una delle cause della nostra catastrofe.

“Diamo a questo popolo di lavoratori fiducia nello Stato democratico, facciamo sì che lo Stato – che ad essi è apparso sempre come un nemico – appaia loro come uno Stato nel quale essi potranno democraticamente far trionfare le loro aspirazioni.

“Questo è il mezzo per rafforzare veramente con la fiducia del popolo il nuovo Stato e per evitare gravi crisi sociali al nostro Paese.

“Sul frontone dell’edificio che stiamo costruendo scriviamo ‘Repubblica democratica di lavoratori’, dimostrando così subito al popolo che la casa che stiamo costruendo è veramente la sua casa. I lavoratori italiani lavoreranno uniti per farla più forte e più sicura e per difenderla contro ogni minaccia, e saranno il presidio della nostra indipendenza e della nostra libertà”.

Fanfani, la formula definitiva
La risposta di Fanfani arrivò due giorni dopo, nella seduta del 22 marzo, che fu poi quella in cui si varò la formula definitiva.

“Con l’articolo da noi proposto conserviamo la novità della Repubblica fondata sul lavoro, evitando una dizione, come quella proposta dall’onorevole Basso (il riferimento è all’emendamento formulato da Lelio Basso e altri, che riproponeva la formula Togliatti, ndr), la quale, per precedenti storici, per formulazioni teoriche, che non si possono sopprimere, può apparire, a parte della popolazione italiana, classistica e, perciò, può allontanare qualche consenso, che certamente non è superfluo, alla nostra Repubblica, in mezzo alle popolazioni italiane.

“E per questo, pur sapendo quale sacrificio possa costare ai nostri colleghi dei partiti, che si ispirano alle definizioni e precisazioni marxiste, possiamo ad essi domandare se, in questa alternativa o di ottenere una immediata precisazione dottrinaria del loro pensiero o rinunziare ad essa ed acquisire nuovi consensi alla forma di questa Repubblica democratica fondata sul lavoro, che noi vogliamo realizzare, non ritengano di rimandare, come essi dicono, ad altra epoca un’ulteriore precisazione in questa materia”.

La Malfa e i diritti di libertà
Fu poi il turno di La Malfa, che illustrò con le parole che seguono la proposta dei repubblicani.

“Ecco in brevi parole la ragione del nostro emendamento. Si è detto: l’Italia è una Repubblica democratica. Ora questa dizione ha dato luogo a molte discussioni in seno all’Assemblea. Come osservava un collega, l’espressione Repubblica democratica, se dovesse rimanere tale e quale, non sarebbe qualificata da nessun punto di vista. Si può pensare che si dice ‘democrazia’ per ragioni di carattere generale.

“Il nostro sforzo è costituito nel dare a questa espressione ‘L’Italia è una Repubblica democratica’ due fondamenti istituzionali ben certi e sicuri. Abbiamo detto: l’Italia è una Repubblica democratica fondata sui diritti di libertà – e credo che nessuno in questa Assemblea voglia negare questo fondamento – e sui diritti del lavoro. Questa è la parte costituzionalmente nuova del nostro progetto.

“Si potrà obiettare che viene dato valore costituzionale non solo ai diritti di libertà, ma anche ai diritti del lavoro. Ma è appunto questo scopo che abbiamo voluto raggiungere. Questa è la parte viva, nuova, fresca, socialmente avanzata, della Costituzione.

“Noi abbiamo oggettivato il significato del lavoro nella vita politica, economica e sociale dell’Italia democratica. Parlando di diritto del lavoro diamo a questo concetto un valore istituzionale, che non è dato per esempio quando parlassimo di una ‘Repubblica democratica dei lavoratori’.

“All’articolo l, cioè, con questa specificazione noi, in un certo senso, anticipiamo e riassumiamo tutti i diritti fondamentali che si trovano sparsi in altri titoli del progetto.

“Abbiamo rapporti civili, etico-sociali, economici ecc., ma quando noi parliamo di diritti di libertà e del lavoro, fissiamo la Costituzione su due termini estremamente precisi. Definendo come noi vogliamo definire la Repubblica democratica, riassumiamo nella definizione i tratti più caratteristici della Costituzione. Del resto, una definizione è dire in brevissime parole quella che è la sostanza di una trattazione, in questo caso quella che è la struttura stessa della Costituzione.

“Noi diciamo diritti di libertà e del lavoro ed anticipiamo istituti e diritti che sono specificati in molti articoli e parti della Costituzione. Definiamo la Repubblica, fissando istituzionalmente e costituzionalmente i due concetti fondamentali che ne sono a base.

“Ritornando su un concetto che ho enunciato nella discussione sulle elezioni in Sicilia, osservo che la Costituzione è una costruzione architettonica che deve prescindere, in certo senso, dall’equilibrio contingente delle forze politiche e proiettarsi nel futuro. Ora, il fatto che diciamo che la Repubblica democratica italiana è fondata sui diritti di libertà e di lavoro ha lo scopo di fissare questa costruzione non solo rispetto all’equilibrio politico attuale, ma rispetto allo svolgimento futuro, e ciò allo scopo di dare un senso di stabilità e di continuità, di sicurezza e di obiettività alla nostra Costituzione. Sono questi i motivi che ci hanno indotto alla presentazione dell’emendamento e che ci suggeriscono di richiamare su esso l’attenzione dei colleghi”.

La scelta di Togliatti
Messa ai voti per prima, la proposta delle sinistre venne respinta. Intervenne così Togliatti che, tra la formula La Malfa e quella Fanfani, dichiarò il suo favore per la seconda: “Qui si tratta di scegliere tra due formule: ‘Repubblica democratica fondata sul lavoro’ oppure: ‘Repubblica democratica fondata sui diritti di libertà e sui diritti del lavoro’.

“Queste due formule vengono presentate dopo che è stata respinta la formula da noi presentata (...).

“Di fronte all’alternativa che adesso si presenta, devo dichiarare, a nome del Gruppo al quale appartengo, che noi preferiamo la formula prevista dall’onorevole Fanfani: ‘Repubblica democratica fondata sul lavoro’.

“Il motivo mi sembra evidente: prima di tutto la formula del collega Fanfani è quella che più si avvicina a quella che noi avevamo presentato. Per questo semplice motivo noi avremmo il dovere di votarla.

“Per la sostanza, la formula ‘Repubblica fondata sul lavoro’ si riferisce a un fatto di ordine sociale, e quindi è la più profonda; mentre la formula presentata dall’onorevole La Malfa e da altri colleghi, trasferendo la questione sul campo strettamente giuridico e introducendo anche una terminologia poco chiara e poco popolare sui ‘diritti di libertà’ e ‘di lavoro’ ci sembra sia da respingere. Da ultimo, essa se mai non è appropriata a questa parte della Costituzione, ma appartiene alla seconda parte, alla parte successiva.

“Per questi motivi, il nostro Gruppo voterà contro la formula dell’onorevole La Malfa e in favore della formula dell’onorevole Fanfani”.

Formula che poi, ripetiamo, divenne quella definitiva.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…”
Strettamente legato all’idea forza enunciata nell’articolo l della Costituzione è il principio affermato nel secondo comma dell’articolo 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Se il primo comma ribadisce l’eguaglianza formale così come affermata dalla Rivoluzione francese dell’89 (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”), il secondo, non nascondendo la diseguaglianza “di fatto” esistente nell’organizzazione sociale, riconosce che detta diseguaglianza può essere un impedimento all’affermazione piena della persona. Una situazione, dunque, che va rimossa, come si dice in maniera esplicita.

Non casualmente l’articolo 34 comma 3 prevede poi che i “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”; ma, prima ancora, l’articolo 4 comma l: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. E, ancora, l’articolo 41, norma fondante della nostra costituzione economica, vòlta a contemperare il dispiegarsi della libera iniziativa con la difesa dell’utilità sociale, e gli articoli più direttamente finalizzati alla tutela e promozione del lavoro: l’articolo 35 (“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni”); l’articolo 36 (retribuzione, giornata lavorativa, diritto al riposo); il 37 (tutela delle donne e dei minori); il 38 (tutela previdenziale e assistenziale); gli articoli 39 e 40 (libertà sindacale e contrattazione collettiva, diritto di sciopero).

I meriti di Lelio Basso
Ideatore della formula adottata nell’articolo 3 (secondo comma) fu Lelio Basso, figura di spicco del partito socialista, sicuramente tra gli uomini che più hanno contribuito alla nascita della carta costituzionale. Intervenendo l’11 settembre 1946 nella prima Sottocommissione della Costituente (la Sottocommissione che lavorò agli articoli sui diritti e doveri dei cittadini), così illustrò la sua proposta: “Non basta l’eguaglianza puramente formale, come quella caratteristica della vecchia legislazione, per dire che si sta costruendo uno Stato democratico (…) invece l’essenza dello Stato democratico consiste nella misura maggiore o minore del contenuto che sarà dato a questo concreto principio sociale. Naturalmente i primi articoli della Costituzione non possono essere delle norme concrete di pratica applicazione, ma delle direttive indicate al legislatore come un solco in cui egli debba camminare, come affermazione della finalità cui la democrazia tende e cioè verso l’eguaglianza sociale”.

Il contributo di Dossetti
Alla definizione di queste direttive un contributo determinante, nel corso della discussione, fu dato da Giuseppe Dossetti – all’epoca impegnato direttamente in politica nelle file della Dc –, che intervenne per sottolineare “l’obbligo della solidarietà sociale e il parallelismo, ai fini della Costituzione, tra il fine di garantire l’autonomia e la libertà della persona umana e quello di promuovere la necessaria solidarietà sociale”. “Sono questi obiettivi – aggiunse – ai quali va attribuita una pari importanza”. Obiettivi che erano logicamente correlati alla definizione che, secondo l’uomo politico cattolico, la Carta costituzionale avrebbe dovuto dare dei diritti della persona. In questo senso vale la pena ricordare l’ordine del giorno che Dossetti sottopose alla prima Sottocommissione come sintesi della discussione generale svolta nell’organismo (che tuttavia la Sottocommissione preferì accantonare per passare direttamente all’esame dei diversi articoli proposti).

“La Sottocommissione, esaminate le possibili impostazioni sistematiche di una dichiarazione dei diritti dell’uomo;

“esclusa quella che si ispiri a una visione soltanto individualistica;

“esclusa quella che si ispiri a una visione totalitaria, la quale faccia risalire allo Stato l’attribuzione dei diritti dei singoli e delle comunità fondamentali;

“ritiene che la sola impostazione veramente conforme alle esigenze storiche, cui il nuovo statuto dell’Italia democratica deve soddisfare, è quella che:

“a) riconosca la precedenza sostanziale della persona umana (intesa nella completezza dei suoi valori e dei suoi bisogni, non solo materiali ma anche spirituali) rispetto allo Stato e la destinazione di questo a servizio di quella;

“b) riconosca a un tempo la necessaria socialità di tutte le persone, le quali sono destinate a completarsi e a perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale: anzitutto in varie comunità intermedie, disposte secondo una naturale gradualità (comunità familiari, territoriali, professionali, religiose ecc.), e quindi, per tutto ciò in cui quelle comunità non bastino, nello Stato;

“c) che per ciò affermi l’esistenza sia dei diritti fondamentali delle persone, sia dei diritti delle comunità anteriormente ad ogni concessione da parte dello Stato”.

La Grundnorm di Basso
Trent’anni dopo l’avvio dei lavori della Costituente, nel 1976, in un articolo apparso sul Messaggero in occasione della festa della Repubblica, Basso ritornò in maniera assai efficace sulla portata del principio enunciato nell’articolo 3 (ma anche, come si può leggere di seguito, sul clima davvero speciale in cui si erano svolti quei lavori).

“Di quel periodo conservo alcuni ricordi particolarmente vivi. In primo luogo l’atmosfera in cui si lavorava, che fu, press’a poco fino alla fine dei lavori della Sottocommissione, un’atmosfera di leale collaborazione fra i principali gruppi politici: gli ultimi echi di quella ch’era stata l’atmosfera della Resistenza e che doveva spegnersi di lì a poco, grazie soprattutto alle iniziative di Saragat e di De Gasperi e alle sollecitazioni di Washington.

“Ma vorrei qui anche ricordare i due articoli, proposti esclusivamente da me senza la collaborazione di La Pira, che mi riuscì di far passare nella Costituzione, che sono gli attuali articoli 3 capoverso e 49. Sono articoli che hanno fatto consumare in questi trent’anni molto inchiostro ai giuristi, anche perché entrambi si collocano in una visuale assai diversa, per non dire contraria, da quella in cui si colloca il profilo generale della nostra Costituzione.

“L’art. 49 è quello che ha riconosciuto il ruolo costituzionale dei partiti, fin allora considerati semplici associazioni private, costituzionalmente non rilevanti. Era, credo, la prima menzione dei partiti in una Costituzione occidentale, e fu poi seguita dall’art. 21 della Legge fondamentale germanica. Ma maggiormente innovativo fu il capoverso dell’art. 3, considerato da molti giuristi come la norma fondamentale (Grundnorm) della Costituzione e da altri come una semplice affermazione senza valore. Ricordo, per i lettori non giuristi, che il primo comma di quello stesso articolo ripete una norma standard di tutte le Costituzioni sull’eguaglianza dei cittadini. ‘Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali’. Siamo qui, è chiaro, in presenza di una eguaglianza puramente formale: la legge rimane eguale per tutti, ma la sua applicazione è diversa, perché la società è composta di persone disuguali. C’è forse la stessa libertà di stampa per il multimiliardario che può fare il ‘suo’ giornale e la comune dei mortali? L’esperienza ci mostra che anche in carcere c’è una profonda differenza di trattamento tra l’imputato comune, ancor oggi soggetto a maltrattamenti, e il generale che va diretto in infermeria e viene rapidamente scarcerato. Nonostante la conclamata uguaglianza di diritto, i cittadini sono ben lungi dal fruire di diritti uguali.

“Ed ecco allora il senso del secondo comma dello stesso art. 3 da me introdotto: ‘È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese’. Messo immediatamente di seguito al primo, questo comma ha un netto significato polemico: la Costituzione stessa riconosce che un principio fondamentale, come quello dell’eguaglianza, non è e non sarà rispettato in Italia finché non muteranno radicalmente le condizioni economiche e sociali. Ma la stessa polemica si rivolge, può dirsi, contro tutta la Costituzione: nessuna libertà è effettiva finché sussistono le attuali condizioni; il voto dei cittadini non è uguale finché perdurano ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini; la stessa sovranità popolare, base della democrazia, è un’illusione se non tutti i lavoratori possono partecipare effettivamente all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.

Parole, come si vede, quanto mai attuali.