Pubblichiamo un estratto da Valerio Strinati, La Costituzione e il lavoro, supplemento a «Rassegna Sindacale», novembre 2009 (qui il PDF della guida integrale).

La dichiarazione solenne del diritto al lavoro completa il quadro dei princìpi costituzionali riguardanti tale materia: con l’art. 4, 1° comma, viene infatti riconosciuto a tutti i cittadini il diritto al lavoro ed è assegnato alla Repubblica il compito di promuovere le condizioni che lo rendano effettivo.

Poiché l’impegno delle istituzioni a realizzare le condizioni più favorevoli per l’esercizio del diritto a svolgere un’occupazione retribuita e per il conseguimento del pieno impiego costituisce l’essenza del carattere sociale che ispira le costituzioni democratiche moderne, la collocazione di tale norma tra i princìpi generali appare del tutto giustificata. Essa, oltre a integrare i precedenti articoli, introduce le norme sul lavoro contenute nel titolo III, ponendosi come cerniera tra le diverse parti della Costituzione. È probabilmente per questo ordine di considerazioni che l’Assemblea Costituente, nell’esaminare il Progetto di Costituzione, non modificò il testo dell’allora art. 31 – se non per la soppressione di un terzo comma che, in palese violazione del principio di eguaglianza, subordinava l’esercizio dei diritti politici all’adempimento del dovere di lavorare – ma intervenne sulla sua collocazione, trasferendolo dall’inizio del titolo III, dove era stato posto, ai princìpi fondamentali.

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Licenziamenti
Escludere che il diritto al lavoro, come delineato dall’art. 4, configuri una pretesa che i singoli interessati possono far valere innanzi al giudice non comporta che la disposizione costituzionale sia priva di valore precettivo. La Corte costituzionale, nella sentenza 45/1965 in materia di licenziamenti, pur respingendo l’eccezione di incostituzionalità riguardante l’art. 2118 del codice civile, sulla libertà delle parti di recedere dal rapporto di lavoro, affermava – sulla base del vincolo posto dal legislatore costituente ai poteri pubblici di assicurare l’effettività del diritto al lavoro – l’esigenza che il legislatore ordinario circondasse di garanzie e di opportuni temperamenti i casi in cui si rendesse necessario procedere a licenziamenti. Nella medesima sentenza la Corte osservava anche che, nel contesto evolutivo della legislazione, il potere illimitato del datore di lavoro di recedere dal rapporto risultava progressivamente ridimensionato, in modo da non costituire più un principio generale dell’ordinamento. La disciplina dei licenziamenti, perciò, concludeva la Corte, non avrebbe più potuto continuare a muoversi su un piano del tutto diverso da quello indicato dall’art. 4 della Costituzione. Come è noto, l’invito della Corte costituzionale a regolare i licenziamenti individuali in coerenza con le disposizioni costituzionali fu accolto tempestivamente dal legislatore, con l’approvazione della legge 604/1966 e, successivamente, con l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, costitutivo del diritto dei lavoratori, colpiti da licenziamento illegittimo, alla reintegrazione nel posto di lavoro, nonché con la legge 108/1990.

Valore precettivo
Si definiscono precettive le norme giuridiche che impongono immediatamente un determinato comportamento ai soggetti destinatari. Al carattere precettivo di una disposizione si contrappone quello programmatico di altre, specialmente in materia costituzionale.

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Quanto alla natura e alla portata del diritto definito all’art. 4, già nella relazione al Progetto di Costituzione, Meuccio Ruini chiarì che il diritto al lavoro non doveva intendersi come “un diritto già assicurato e provvisto di azione giudiziaria”,ma come un “diritto potenziale”, legato, cioè, agli adempimenti degli obblighi prescritti alle istituzioni, e in primo luogo al legislatore ordinario: essi, però, non consistono nel dovere di dare soddisfazione diretta alla pretesa di ciascuno a ottenere o conservare un’occupazione retribuita alle dipendenze di un datore di lavoro pubblico o privato, bensì, come chiaramente risulta dalla lettera della norma, nel promuovere le condizioni necessarie per conferire effettività al diritto al lavoro, il che investe una pluralità di materie che coinvolgono non solo la disciplina del rapporto e del mercato del lavoro, ma anche gli indirizzi generali della politica economica.

Oltre al riconoscimento del diritto al lavoro, il 2° comma sanziona il dovere, per ogni cittadino, di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale e morale della società: tale dovere riconduce direttamente all’ambito dei doveri inderogabili di solidarietà sociale fissati all’art. 2, per l’adempimento dei quali lo svolgimento di un’attività rivolta al bene della collettività rappresenta un presupposto materiale essenziale; d’altra parte, come si evince dalla soppressione del 3° comma dell’art. 31 del Progetto di Costituzione, il legislatore costituente ha inteso stabilire il dovere di lavorare come obbligazione di carattere etico, in quanto tale non munita di particolari sanzioni, e al tempo stesso ha voluto iscrivere in esso anche un diritto di libertà, nel prevedere che possa essere adempiuto secondo le possibilità e le inclinazioni dei singoli, escludendo quindi che in questa sfera i poteri pubblici possano interferire coercitivamente.