Veleno, solo veleno. Altra parola non c’è per definire la mozione – primo firmatario il capogruppo leghista alla Camera Roberto Cota – votata a metà ottobre a Montecitorio sulle classi separate per gli alunni immigrati. “Norme non solo gravi e pericolose ma anche demagogiche e inefficaci” ha scritto Tahar ben Jelloun (Repubblica, 25 ottobre). “La creazione di classi speciali non servirà certo a risolvere i problemi dell’integrazione, che non si favorisce separando i figli degli immigrati, e ancor meno segnandoli a dito”. Un principio elementare, quello ribadito dallo scrittore marocchino, che ora si vorrebbe cancellare, eliminando con un tratto di penna il lavoro che tante donne e uomini di buona volontà – dirigenti scolastici, insegnanti, personale Ata – hanno svolto in questi anni nei luoghi in cui più alta è la concentrazione di famiglie straniere. Il lavoro realizzato in una scuola di Firenze, ad esempio.


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L’accoglienza
Due scuole dell’infanzia, una primaria e una secondaria di primo grado, l’Istituto comprensivo intitolato al Mahatma Gandhi sorge a Brozzi, periferia ovest di Firenze, luogo d’insediamento di una folta comunità cinese. Dall’altro lato della via Pistoiese, alle Piaggie, nuclei ulteriori di immigrati – non solo cinesi – e una comunità di rom, alcuni dei quali nei normali alloggi assegnati dal comune. Una scuola con una forte presenza di bambini e ragazzi stranieri, dunque, l’Istituto Gandhi (oltre il 37 per cento del totale); una presenza in progressivo aumento nel corso del tempo, che però, fatto significativo, non ha scoraggiato – tutt’altro, anzi – l'iscrizione dei bambini italiani.

“Qualcosa vorrà dire, no? – esclama Stefania Cordone, della segreteria didattica, di un ufficio che fra i tanti, qui, ha il compito dell’accoglienza e del rapporto con le famiglie –. Per me significa che sappiamo fare integrazione, senza danneggiare nessuno”. “Una prassi normale – aggiunge Anelia Cassai, insegnante –. Non è vero che gli italiani ci rimettono. I vantaggi del confronto con le altre culture, non è una formula retorica, costituiscono una realtà che tocchiamo quotidianamente. Le difficoltà, quando insorgono, sono in gran parte quelle normali che qualsiasi insegnante ha con i ragazzi”. Naturalmente non si può far finta che chi viene da una storia e una cultura diverse dalla nostra non ponga qualche interrogativo in più. E che, innanzitutto, la lingua non rappresenti un problema.

“Ma affrontarlo con la separazione – ricorda ancora la professoressa Cassai – è la peggiore delle strade. Insomma, mandiamo i nostri figli in Inghilterra perché convinti che la lingua non s’impara tra i banchi ma solo stando a contatto con chi la parla correntemente, e poi decidiamo di espellere dalle nostre classi i bambini non italiani?”. “Certo – aggiunge – occorrono più supporti”. E importante, da questo punto di vista, è qui l’ausilio fornito dal centro Gandhi, uno dei tre centri di alfabetizzazione messi in piedi dal comune di Firenze. I bambini, normalmente inseriti nelle classi, vi si recano per alcune ore a settimana. Come se frequentassero un laboratorio linguistico o un laboratorio musicale”.

I tagli
Supporti didattici, allora. Insegnanti e ore di studio dedicati all’integrazione. Cosa che porta com’è ovvio a scontrarsi con la mancanza di risorse. “Un modello organizzativo e didattico esemplare: così viene da più parti considerato quanto realizzato finora – interviene Cordone –. Tutto questo però, sembrerà incredibile ma è proprio così, lo stiamo facendo in assenza di insegnanti con un incarico specifico per i laboratori: di insegnanti che siano di aiuto all’integrazione. È da anni che non ci sono più. L’insegnante curriculare fa tutto. Il comune, poi, è stato costretto a ridurre anche le ore dell’interprete. Ci capita a volte di dover ricorrere ai bambini più grandi”. “Non abbiamo più locali – continua –. Siamo costretti in alcuni casi a chiamare le altre scuole per collocare i bambini che vengono portati qui a iscriversi. Non vogliamo creare disagi alle famiglie, l’accoglienza è anche questo”.

Accoglienza che nel caso specifico significa impegnarsi contro l’evasione dell’obbligo scolastico. “Al contrario di quanto prevede la mozione della maggioranza di governo che incredibilmente, e contro le leggi dello Stato, chiude le porte agli alunni che arrivino dopo il 31 dicembre”.

Un’altra civiltà
“Stai rientrando? Sì? Bene”. Si è fatto tardi, il professor Carlo Testi, dirigente scolastico del Gandhi, artefice di questa bella esperienza, ci accompagna fuori dell’edificio. All’ingresso, zainetto in spalla, un ragazzino cinese lo saluta mentre rientra in classe. Gli chiediamo qualche riflessione conclusiva. “Tutta la discussione di questi giorni ci ha già riportati indietro – osserva subito –. Siamo costretti a difenderci. Non era di questo che avevamo bisogno”. “Perché? Ma perché così come stanno le cose già oggi c’è un grande affanno”. “Sono necessari più flessibilità interna e una maggiore autonomia. Che significa più denaro. Altrimenti si continua a vivere nell’emergenza”. “Gli alunni devono stare insieme, ma alcuni hanno bisogno di un’attenzione specifica, con personale specializzato. Qui abbiamo il centro Gandhi, altrove il nulla”.

“Insomma non possiamo dividere il modo di fare scuola. La scuola deve essere un mondo unitario. All’interno del quale cogliere poi, e offrire, quel che serve ai singoli: sul versante linguistico e su quello delle materie”. “Ancora, meno nozionismo. Se le informazioni che io comunico non hanno un senso, non diventano parte del modo di agire e interpretare il mondo, sprechiamo tempo. Questo non significa meno discipline, ma discipline capaci di far crescere gli alunni. Per questo il maestro unico, che sa un po’ di tutto, non va”. “Naturalmente – prosegue – bisogna rendere più diffusa la possibilità di insegnare l’italiano come lingua seconda. E, a tal fine, è necessaria la formazione e la formazione in servizio”. “Ma la cosa più importante di tutte è riconoscere una parte di sé in quello che viene fatto a scuola: le finestre interculturali, come diciamo nel nostro linguaggio, per tutti e per tutte le discipline”. “Infine, una maggiore apertura al dialogo fra culture. Le ‘finestre’ non sono ancora il dialogo. Ci sono tante buone esperienze, ma il riconoscimento dell’altro come ricchezza da far emergere, beh, è un obiettivo che sta ancora sullo sfondo”. Un obiettivo di civiltà, in sostanza. Ignoto, e torniamo all’inizio, a chi vorrebbe avvelenare il paese.