Nella prefazione al suo ultimo romanzo (The Deportees) l’irlandese Roddy Doyle annota: “Nel 1986 scrissi The Commitments. In quel libro il protagonista (...) fa una battuta divenuta piuttosto famosa: ‘Gli irlandesi sono i negri d’Europa’. Vent’anni dopo migliaia di africani vivono in Irlanda e, se scrivessi quel libro oggi, non userei la stessa frase”. In effetti Mr. Doyle ha ragione: l’aspetto demografico del suo paese è stato rivoluzionato dagli ultimi trascorsi, e l’Irlanda da terra di emigrazione e carestie è diventata isola d’immigrati, dove può capitare di essere serviti da una ragazza polacca in un Kentucky Fried Chicken o da un nigeriano in un pub del Donegal.

Sembra esserci più traffico sul nostro pianeta che sul più cliccato dei siti internet, e i connotati della maggior parte dei paesi avanzati sembrano usciti da una plastica facciale di quelle pesantine. Solo nell’area Ocse (che racchiude i 30 paesi più sviluppati in senso economico e democratico della terra) nel 2006 gli immigrati permanenti regolari erano quattro milioni, con una crescita del 5% rispetto all’anno precedente. E nello stesso periodo sono sbarcati più di due milioni e mezzo di immigrati temporanei (ossia persone che sono poi tornate, o torneranno, nei paesi d’origine). Le molle scatenanti di queste miriadi di viaggi individuali sono essenzialmente due: i ricongiungimenti familiari e la ricerca di un lavoro, spesso scarsamente qualificato. La prima voce, ad esempio, è preponderante negli Stati Uniti (70%) e in Francia (60%). Mentre in molti paesi europei, tra cui Italia, Irlanda, Gran Bretagna e Spagna, il 40% degli immigrati è arrivato per motivi lavorativi. Lo sguardo d’insieme sui fenomeni migratori è fornito dal Rapporto annuale dell’Ocse, l’International Migration Outlook 2008, presentato oggi a Parigi.

Complessivamente – si legge nel Rapporto -, il 44% dell’immigrazione è legato a motivi familiari (ricongiungimenti, matrimoni ecc.) e il 14% al lavoro. Ma è cresciuta anche l’immigrazione di natura umanitaria: dall’8% del 2003 al 12% del 2006, soprattutto a causa delle richieste d’asilo negli Usa da parte di cinesi, colombiani e cubani “in fuga”. Insomma, sembra proprio che sempre più esseri umani non vogliano proprio saperne di starsene a casa propria. Forse perché una casa degna di questo nome, e un lavoro per mantenersi, non ce l’hanno proprio. E il melting pot è ormai un fenomeno globale.

In molti dei paesi d’approdo gli immigrati costituiscono il 40% della crescita complessiva nella popolazione, e nell’Europa meridionale, in Austria e nella Repubblica Ceca addirittura l’80%. Percentuali che non stupiscono, visto che in quasi tutti i paesi citati il tasso di natalità è di molto inferiore a quel 2,1 (figli per donna) indicato come la soglia minima di sostituzione che garantisce l’equilibrio demografico tra nuovi nati e decessi. L’Ocse fa notare che dal 2000 a oggi la popolazione di origine straniera è cresciuta del 18%, e che nel 2006 è arrivata al 12% del totale nei paesi dell’area. Le nazioni nelle quali la presenza di stranieri ha visto l’accelerazione maggiore sono Irlanda, Finlandia, Austria e Spagna.

Cina (10,7%), Polonia (5,3%) e Romania (4,6%) sono i principali paesi d’origine dei migranti che partono per cercare fortuna negli Stati dell’area Ocse. Una classifica – fa però notare il Rapporto – che non può tenere conto degli spostamenti clandestini, e dunque ignora – per fare il più eclatante degli esempi – i 400 mila messicani che si stima siano arrivati irregolarmente negli Stati Uniti.

Il crescente impatto sul mercato del lavoro non è che una conseguenza delle cifre che abbiamo appena snocciolato. In alcuni paesi l’occupazione straniera è cresciuta a ritmi rapidissimi. Nella già citata Irlanda di Roddy Doyle tra il 1996 e il 2002 il tasso è stato del 10%, ma del 14% dal 2002 al 2006 e ben del 24% nel solo anno 2005-2006. Negli Stati Uniti, dal ’96 al 2006, l’occupazione è cresciuta di 15,3 milioni: la metà dei quali, però, è composta da immigrati (7,7 milioni). Ancora più eclatanti le statistiche della Gran Bretagna, dove nello stesso periodo sono stati creati 1,8 milioni di posti di lavoro, il 66% dei quali (1,2 milioni) appartengono a stranieri. E in Italia e Svezia il 60% della crescita occupazionale è “merito” di chi parla un’altra lingua. In controtendenza il Portogallo (1996-2002: 9%; 2002-06: 5,7%; 2005-06: 1,7%) e in misura minore la Spagna (1996-2002: 30%; 2002-06: 23%; 2005-06: 17%).

Proprio l’Italia, insieme a Spagna e Irlanda, è tra i paesi europei che nel 2006 hanno visto aumentare di più il tasso di occupazione degli immigrati che rappresentano l’8,6% della forza lavoro (il 3,5% in più rispetto ai dati del 2002. Secondo l'Ocse il tasso di occupazione tra la popolazione immigrata residente nel nostro paese è dell’81,9% per gli uomini e del 49,9% delle donne. In entrambi i casi il dato medio è più alto di quello italiano, rispettivamente al 69,6 e 46%. Praticamente uguale alla media dei cittadini italiani, il tasso di disoccupazione per gli uomini, al 5,7%, mentre tra le donne straniere residenti nel paese è più alta la disoccupazione rispetto alla media nazionale (12,4 contro 8,5).

Il tipo di occupazione degli immigrati – rileva l’Ocse - varia considerevolmente da paese a paese. Da una tabella (scaricala) contenuta nel Rapporto si evince però che la parte del leone la fanno settori come manifatture – estrazioni ed energia (19,3% nell’Europa a 25, 13,7% negli Stati Uniti, 52,5% in Giappone, 29% in Germania e 23,6% in Italia), le costruzioni (29% in Grecia, 14,2% in Italia), i servizi sanitari e il welfare (soprattutto nel Nordeuropa: Norvegia 25,4%, Danimarca 20,2%, Svezia 19,1%, Gran Bretagna 15,7), i servizi domestici (Italia 10,4%, Spagna 13,3%). Ovviamente salari e mansioni sono mediamente bassissimi. Ma per quanto riguarda il primo punto anche i lavoratori autoctoni hanno poco di cui rallegrarsi.