Occupazione, investimenti e ambiente. Sono questi i temi centrali dell’incontro “Un piano nazionale per l’acciaio. Dove va la siderurgia italiana”, promosso dalla Cgil per discutere del futuro e dei problemi attuali dell’industria metallurgica in Italia. “Il settore è in una situazione anomala: abbiamo una produzione che all’80% avviene per mezzo di forni elettrici”, spiega Gianni Venturi, segretario nazionale Fiom Cgil, alla vigilia dell’incontro organizzato dal sindacato: “Dobbiamo trovare un punto d’equilibrio per tenere conto di questa e di altre problematiche, come la salvaguardia dei posti di lavoro, il sostegno delle istituzioni e la transizione verso un’economia green”.

Il comparto siderurgico è parte integrante del sistema produttivo industriale da almeno 150 anni. L’Italia è tra i leader mondiali nella produzione dell’acciaio e il settore continua ad avere un peso importante nell’economia, sia per l’occupazione (70 mila lavoratori tra diretti e indiretti) sia per il pil (30 miliardi di fatturato diretto). Da ormai diversi anni il sistema siderurgico si trova però in difficoltà su molti fronti: ad esempio, la lavorazione dell’acciaio è vittima di una crescente pressione dei competitor internazionali e di una diffusa incertezza lavorativa.

“Sovracapacità produttiva, politiche sbagliate e guerre commerciali – illustra Venturi – hanno generato problemi per gli assetti societari e le strategie industriali. In Italia ci sono grandi gruppi, una buona rete commerciale, centri di servizio e di distribuzione. Ma anche diverse questioni ancora aperte: Taranto e l’ArcelorMittal, le acciaierie di Terni e lo stabilimento siderurgico di Piombino (Livorno). Tre poli industriali importanti, tre vertenze che si risolverebbero solo con un quadro di riferimento politico-istituzionale e con un piano nazionale dell’acciaio”.

La soluzione di queste tre dispute, dunque, non sarebbe solo legata ai volumi di produzione degli stabilimenti, ma anche agli assorbimenti del personale e alle scelte sotto un punto di vista energetico e logistico. “Queste situazioni – riprende il segretario nazionale Fiom – hanno in comune un problema di competitività critica e sono penalizzate, considerando che il differenziale tra l’approvvigionamento della materia prima e il costo di produzione supera di molto la media del paesi europei”.

Quando si parla di industria siderurgica in Italia, è inevitabile non pensare a Taranto e all’ex Ilva, dove ai problemi occupazionali e di gestione economica della proprietà si aggiunge la crisi ambientale del più importante polo siderurgico europeo. L’inquinamento della fabbrica si è riversato per anni sulla popolazione del territorio salentino, con effetti devastanti per chi vive a Taranto. Per l’ex Ilva, e non solo, il dilemma tra lavoro e diritto alla salute continua, tenendo conto anche degli ultimi sviluppi societari.

Il piano industriale di ArcelorMittal non ha infatti convinto a pieno i sindacati, che chiedono più garanzie per il futuro e la sicurezza dei lavoratori. Per Taranto, poi, è ancora più complesso. “L’ipotesi del ciclo di produzione misto – argomenta l’esponente sindacale – ha tempi che ci preoccupano, perché tornerebbe a pieno regime solo nel 2025. Questa soluzione è poco sostenibile per i lavoratori e per la città, già segnati dalla cassa integrazione, dai rischi per la salute e dalla pandemia. È necessaria un’accelerazione negli investimenti, per una crescita occupazionale e produttiva. Tutto dipende dalla volontà di realizzare gli obiettivi del piano: il prezzo dell’acciaio continua a salire e la domanda c’è, ma è troppo larga per la capacità produttiva di Taranto”.

I sindacati hanno chiesto al ministero dello Sviluppo economico l’apertura di un tavolo di confronto tra i soggetti coinvolti nell’industria siderurgica. Tra gli obiettivi, anche la necessità di ragionare sulla struttura della filiera e sulla questione ambientale. “L’acciaio potrebbe diventare un prodotto fondamentale per l’economia circolare – conclude il segretario nazionale della Fiom Cgil Gianni Venturi – e noi siamo a favore, ma il punto è un altro: un nuovo modello di sostenibilità ambientale potrebbe avere un impatto troppo pesante sui livelli occupazionali e sui costi di rifornimento energetico. Per ora ci sono state solo diverse interrogazioni parlamentari, ma serve un impegno più concentrato della politica e delle istituzioni”.