Lavoratori che partono per le battute di pesca del gambero rosso e che vengono sequestrati, incarcerati nelle galere libiche e maltrattati. Che lasciano il porto, le loro famiglie, le loro case, per finire assaltati dalle motovedette, “sparati”, come dicono da queste parti, dalla guardia costiera di un Paese che si dichiara amico dell’Italia. Succede ai pescatori di Mazara del Vallo, 50mila abitanti nella provincia di Trapani e un porto che si affaccia su Mar Mediterraneo, a meno di 200 chilometri dalle coste tunisine, a 930 da quella di Bengasi. Una città con una flotta alturiera dedita alla pesca industriale, che ha inventato il pesce congelato a bordo, tra cui il preziosissimo e ricercatissimo gambero rosso di Mazara, come andare a catturarlo, come usare le nuove tecniche, con equipaggi che mancano da terra per due, tre mesi.

“Questi lavoratori che fanno un’attività tra le più usuranti che esista, tra le più pericolose, quando escono in mare per andare a pescare il gambero rosso non sanno se torneranno a casa, dai loro cari – denuncia Antonio Pucillo, capo dipartimento pesca della Flai Cgil nazionale -. Per questo insieme a Fai Cisl e Uila Pesca abbiamo lanciato una petizione, per chiedere al governo un intervento in grado di garantire piena sicurezza ai pescatori, oggetto di vere e proprie azioni di pirateria in un crescendo di tensioni tra i paesi del Nord Africa e la flotta italiana sulla gestione dell’attività nel sud del Mediterraneo. Abbiamo registrato un’evidente indifferenza al problema, mancate risposte da parte delle istituzioni, con i familiari dei 18 pescatori sequestrati a maggio dell’anno scorso rimasti senza notizie per 30, 40 giorni, una situazione davvero disperata”.

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Lavoro

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Il conflitto che vede al centro la marineria di Mazara del Vallo inizia nell’agosto 1960, quando la guardia costiera tunisina apre il fuoco sul peschereccio Salemi, uccidendo l’armatore Licantini e il capitano Genovese. Oggi sul Canale di Sicilia si giocano partite economiche che vanno al di là degli interessi per la pesca
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La petizione finora ha raccolto 20mila firme, un bel risultato raggiunto perché ha travalicato la realtà mazarese e ha coinvolto tutte le marinerie d’Italia e i cittadini che chiedono chiarezza, vogliono sapere che cosa succede nelle acque del Mediterraneo. Secondo i dati del Distretto della pesca siciliano, una cooperativa che riunisce gli operatori del settore, negli ultimi 25 anni sono state sequestrate più di 50 barche e due confiscate, mentre circa 30 pescatori sono stati fermati e decine di persone ferite. I sequestri di pescherecci italiani sono diventati più frequenti dal 2005 quando Muammar Gheddafi ha deciso unilateralmente di estendere le acque territoriali libiche da 12 miglia (il limite fissato dalle norme internazionali) a 74 al largo della costa, affermando così il diritto a sfruttare in maniera esclusiva le risorse ittiche in quel tratto di mare.

A pagare il prezzo più alto in questa battaglia economica e politica sono i pescatori e gli armatori, a caccia del pregiato "oro rosso" della Sicilia. L’ultimo in ordine di tempo è stato Giuseppe Giacalone, comandante dell’Aliseo, preso a mitragliate il 6 maggio scorso da una motovedetta libica, quando si trovava a 51 miglia dalla costa. “Ci hanno sparato almeno novanta colpi, presi a fucilare per quasi due ore, mi hanno ferito alla testa, hanno distrutto la plancia – ci racconta -. Avevo messo l’equipaggio in sicurezza, nella stiva, e me la sono vista io con i libici. Avevano pronte delle bottigliette piene di benzina da gettarci addosso: volevano ucciderci. E la cosa peggiore è che nessuno è intervenuto, né la nave che ci aveva raggiunto né l’elicottero, che stava sopra di noi, entrambi della marina militare italiana”. Oggi il comandate non se la sente di tornare in mare, “come pescatore sono morto. Sono in cura da uno psicologo e non ho il coraggio di salire su una barca”.

Sorte diversa e per certi versi peggiore quella toccata agli equipaggi di due pescherecci di Mazara, composti da 18 persone, catturati e sequestrati per 108 giorni da settembre a dicembre 2020 nelle galere di Bengasi, nella roccaforte del generale Khalifa Haftar, con l’accusa di aver sconfinato nelle acque libiche. Nel silenzio assordante delle istituzioni nazionali. Mogli, sorelle, mamme, figli sono andati a Roma per farsi ascoltare, in presidio davanti a Palazzo Chigi per chiedere l’intervento per governo per la liberazione dei loro cari. “Non è giusto che mio figlio che si trovava a pesca a lavorare per guadagnare qualche cosa, sia stato preso e messo in galera – dice la signora Rosetta Ingargiulo, paladina della protesta, mamma di Piero Marrone -. Dopo il sequestro sono rimasta sedici giorni senza notizie, poi ho ricevuto una telefonata telegrafica in cui Piero chiedeva aiuto. Sono andata a Roma e mi sono legata per 53 giorni. Abbiamo avuto qualche incontro con i ministri, dicevano che li trattavano bene, ma non è stato così. Sono rimasti per 108 giorni e quando li hanno liberati non si potevano guardare. Hanno sofferto loro, e abbiamo sofferto noi familiari”.

Paura e angoscia, frustrazione e rabbia è quello che hanno vissuto i mazaresi, anche per la scarsa attenzione da parte del governo centrale. “È mancato il lato umano delle istituzioni politiche, che devono stare sempre vicine al cittadino - afferma il sindaco Salvatore Quinci -, e in questi lunghissimi 108 giorni siamo stati lasciati soli sotto questo profilo”.  Ma non basta. Finora il governo non ha dato risposte ai pescatori.

“I nostri equipaggi partono da Mazara e dopo 48 ore di navigazione rischiano di subire attacchi e angherie anche dai marinai turchi e greci – spiega Giovanni Di Dia, segretario generale Flai Cgil Trapani -. C’è la necessità di fare sinergia e trovare una governance complessiva della regione del Mediterraneo per evitare che questi episodi possano diventare più drammatici. Tutti gli attori principali si devono mettere intorno a un tavolo per capire non solo come regolamentare i rapporti tra i Paesi rivieraschi ma anche gli stock di pesce”.

I sindacati chiedono interventi anche per tutelare un settore in grande sofferenza: “L’attività delle imbarcazioni italiane attrezzate per quel tipo di pesca è già ridotta ai minimi termini e va difesa - conclude Pucillo della Flai -. Il rischio è che molti abbandonino questo lavoro. Ci devono dire se possiamo andare a pescare in quelle zone e se possiamo farlo in sicurezza”.