“Una bomba”. Alcuni testimoni raccontano di aver sentito una deflagrazione nitida e potente. C’è chi giura di aver avvertito la terra tremare per qualche istante. Qualcuno grida, altri scappano. Chi in macchina accelera per evitare di essere travolto dalla nube di polvere. Poi il silenzio, subito interrotto dalle urla strazianti sotto le macerie. A quel punto il rumore diventa caotico. Da lì a poco sovrastato dal suono delle sirene di ambulanze e vigili del fuoco. Avanti e indietro.

Il vociare dei curiosi si fa sempre più invadente. “Che è successo?”. “Quanti erano?”. “Ma c’erano italiani?”. “Non si è salvato nessuno?”. “Che brutta fine, però”. Telecamere e telefonini affollano la scena del crimine illuminandola. Altro rumore. Sgommano auto. “Fate largo”. Volti cupi, costernati, provati davanti ai microfoni. “Una tragedia che si poteva evitare”. “Serve più prevenzione”. “Morti inaccettabili”. “La responsabilità è collettiva”. Tutti colpevoli, nessun colpevole.

Nel frattempo rimbalzano, confusi, i primi lanci d’agenzia. “Due vittime”. “Anzi tre”. “Ci sono feriti e dispersi”. “Non sappiamo ancora nulla di loro”. “Che contratto avevano?”. “Ma avevano un contratto?”. Dettagli per la diretta delle 10. Il cordoglio, intanto, da cittadino diventa nazionale. “Non si può morire sul lavoro”: l’intero arco costituzionale si ritrova unito attorno ai cadaveri senza ancora un nome. A parole, come sempre, tutti bravi.

Bentornati sul luogo del delitto perfetto. Plasticamente ricostruito nell’orrore di un tranquillo venerdì italiano. Oggi Firenze, domani chissà. Tutto così maledettamente prevedibile. Tutto così dannatamente ipocrita. Perché le lacrime dell’ennesima strage degli innocenti si asciugheranno presto sotto il sole e le macerie del prossimo appalto al massimo ribasso. E di nuovo altri caroselli, commiati, telecamere. E di nuovo altri numeri per aggiornare la media insanguinata della dignità umana.