Quarantotto ore di inferno cominciate un sabato d’estate sulla provinciale 105 che da Ascoli Sartiano porta a Castelluccio Sauri e finite due giorni più tardi, verso le quattro del pomeriggio, su un’altra strada, la statale 16. Fu così che a Foggia tre anni fa morirono 16 braccianti. Incastrati tra le lamiere dei furgoncini che li trasportavano alla fine di una giornata di lavoro, rossi di fatica, pomodoro e sangue. La legge 199 contro il caporalato aveva già un paio di anni. Era stata un’altra morte, quella di Paola Clemente, rimasta sfinita e senza vita nelle campagne di Andria, a spingere il legislatore ad accelerare su quelle norme, fortemente richieste e volute dal sindacato.

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Da allora di vittime del caporalato ne abbiamo continuate a contare. D’inverno nei roghi accesi per scaldarsi, d’estate negli incidenti stradali e sotto il sole cocente. Tanto sfruttati quanto essenziali, pagati due o tre euro l’ora per giornate lunghe fino a 13- 14 ore, sparsi lungo tutta la penisola. Senza diritti, senza contratto, italiani e stranieri, schiavi di una schiavitù antica e contemporanea allo stesso tempo.

L’Osservatorio Placido Rizzotto, che di recente ha sottoscritto un protocollo con i ministeri degli Interni, del Lavoro e dell’Agricoltura, nell’ultimo rapporto pubblicato lo scorso anno, stima si tratti di almeno 200mila tra lavoratrici e lavoratori vulnerabili, esposti cioè al ricatto di chi lucra sulla loro fatica e sulle loro vite. Un fenomeno criminale sempre più spesso represso proprio grazie alla legge contro il caporalato, ma pur sempre radicato perché quella norma deve ancora dispiegare tutto il suo potenziale rimanendo in larga parte inattuata l’attività di prevenzione legata alla costituzione della rete del lavoro di qualità.

Il caporalato – come ha intuito per prima la Flai Cgil, impegnata ormai da anni in una capillare attività di sindacato di strada con i camper dei diritti e in ogni ghetto dove l’emarginazione si sposa con lo sfruttamento – è parte di un sistema complesso che rientra negli affari delle agromafie, un’economia sommersa che, stando ai numeri delle commissioni lavoro e agricoltura della Camera dei deputati copre il 12,3% dell’economia totale per un giro d’affari di 24,5 miliardi di euro.

Numeri alla mano anche i controlli dell’Ispettorato del lavoro sono, però, insufficienti a fronte di un’ampia quota di aziende agricole irregolari: quasi il 58%. Chissà a quale percentuale si arriverebbe se le ispezioni non fossero tanto limitate. Intanto a inizio luglio alla direzione dell’Ispettorato è arrivato il magistrato Bruno Giordano. “Una notizia importante – ha commentato Giovanni Mininni, segretario generale della Flai Cgil - che però arriva dopo mesi di nostre denunce sul ritardo inspiegabile nella nomina. Il problema da affrontare immediatamente è che, a fronte di un aumento di reati, calano i controlli. E questo accade perché non ci sono risorse”.  Risorse che dovrebbe arrivare ora dal programma nazionale di ripresa e resilienza con l’assunzione di circa duemila nuovi ispettori su un organico di 4.500. Un passo avanti. Come un altro passo avanti è arrivato con l’approvazione in consiglio dei Ministri del decreto legislativo che recepisce nell'ordinamento italiano la direttiva europea, in materia di pratiche commerciali sleali nei rapporti tra imprese nella filiera agricola e alimentare. “Ogni provvedimento volto a costruire una giusta ed equa distribuzione del valore lungo la filiera – spiega Mininni - è utile non solo alle imprese ma anche ai lavoratori, che troppo spesso si vedono scaricare sulle loro spalle i costi di pratiche sleali o di distorti meccanismi di mercato, che si trasformano proprio in sfruttamento e sottosalario”.