L’Italia è l’unico dei 36 paesi Ocse in cui c’è stata una riduzione del salario medio tra il 1990 e il 2020, di circa tre punti percentuali. Per capire la straordinarietà (in negativo) di questo dato, basta dire che nello stesso periodo le retribuzioni in Corea sono aumentate del 90%, in Irlanda dell’85, negli Stati Uniti di quasi il 50 e in Gran Bretagna di poco meno.

Tra i paesi europei quello che - esclusa l’Italia - ha fatto peggio è la Spagna, dove comunque c’è stata una crescita del 6,3%. Su questi numeri, così come sulla crescita delle disuguaglianze salariali, si concentra il nuovo report “Lavoratrici e lavoratori poveri: chi sono e perché i loro salari sono così bassi”, pubblicato dal Forum Disuguaglianze e diversità (coordinato da Fabrizio Barca).

Bassi salari e povertà

Come immaginabile, l’incidenza dei bassi salari è maggiore tra le donne, i giovani nella fascia 16-34 anni, i residenti al Sud e tra quanti hanno un contratto di lavoro part-time. Questo dato risulta significativo se consideriamo che nel nostro Paese a essere impiegate nel part-time sono prevalentemente le donne e che la maggior parte del part-time (secondo i dati Ocse più del 60%) è involontario.

Il report mostra che l’aumento dei lavoratori e delle lavoratrici a basso salario dipende da due fattori: la paga oraria e il tempo di lavoro. Per quanto riguarda il primo fattore - spiegano i curatori Michele Bavaro (Università Roma Tre), Elena Granaglia e Patrizia Luongo (Forum Disuguaglianze e diversità) - ha sicuramente inciso il cambiamento nella struttura occupazionale avvenuto negli ultimi trent’anni, con la crescita di settori low-skilled, come quello dei servizi a famiglie e turistici, nei quali la retribuzione non è sufficiente per uscire dalla spirale della povertà. E ha inciso la proliferazione dei contratti collettivi nazionali, che coincide anche con una crescente tendenza al mancato rispetto dei minimi tabellari da essi fissati.

Per quanto riguarda il tempo di lavoro, hanno influito invece le numerose riforme di deregolamentazione contrattuale, che hanno permesso la moltiplicazione delle tipologie di contratti atipici e spesso precari, nonché la forte diffusione del part-time.

La ricerca considera altre due categorie a forte rischio di povertà: i lavoratori delle piattaforme e i cosiddetti “falsi lavoratori autonomi”, i quali combinano gli aspetti più negativi sia del lavoro autonomo sia di quello dipendente, dando vita a figure spesso dipendenti a tutti gli effetti, ma che devono fronteggiare costi del lavoro più elevati e possiedono molti meno diritti.

Come intervenire

Nel Report si indicano anche alcune azioni necessarie, a partire da un “salario minimo decente”, capace di contrastare, anche grazie al “rafforzamento della contrattazione collettiva”, la concorrenza al ribasso dei salari e la frammentazione delle categorie contrattuali. E poi occorre più lavoro, perché la “bassa intensità lavorativa è all’origine della povertà di tanti lavoratori”.

Per il Forum Disuguaglianze e diversità, infine, occorre porre fine alla “moltiplicazione delle forme contrattuali non standard”, nonché rivedere il sistema degli ammortizzatori sociali e degli eventuali sostegni al reddito di chi resta lavoratore povero.

I voucher

Rispetto a questo programma d'interventi, la manovra varata dal Governo Meloni non va nella giusta direzione. “Al posto della riduzione delle forme contrattuali non standard – è scritto nel documento – si re-introducono, potenziandoli rispetto al passato, i voucher aboliti dal Governo Gentiloni nel 2017, anche sulla spinta del referendum promosso dalla Cgil”.

Buoni lavoro, si rimarca nel report, che “potrebbero arrivare a coprire addirittura fino a 10 mila euro di remunerazione all’anno, cifra non lontana da uno stipendio ‘normale’ povero”. Il Forum allora si domanda: “Perché un’impresa dovrebbe ricorrere a rapporti di lavoro regolati, quando i buoni permettono di non pagare contributi per disoccupazione, malattia e maternità?”.

La ricerca, in conclusione, sottolinea come i controlli (data la consistenza numerica degli ispettori), la polverizzazione del comparto in cui i buoni possono essere utilizzati e le non risolte difficoltà organizzative relative all’unificazione delle competenze nell’Ispettorato nazionale del lavoro, gettino più di un dubbio sulla possibilità dei controlli.