Il 27 febbraio 1956 inizia a Roma il IV Congresso nazionale della Cgil, che approva l’istituzione delle sezioni sindacali aziendali, lanciata durante la prima Conferenza di organizzazione del dicembre 1954. Di Vittorio prende per la prima volta la parola in pubblico dopo l’infarto che lo aveva colto alla fine dell’anno precedente, affermando: “Amici e compagni delegati! (…) Mi sia consentito di esprimere i miei più vivi ringraziamenti a tutte le organizzazioni e a tutti i lavoratori d’Italia e di numerosi altri Paesi che in questa dolorosa occasione hanno voluto farmi giungere i loro fraterni auguri”.

Un ringraziamento “particolarmente caloroso”, il segretario generale della Cgil lo rivolge dunque “alla Federazione sindacale mondiale e al suo segretario generale, mio carissimo compagno e amico Louis Saillant, il quale ha voluto rinnovarmi, anche qui, i suoi fraterni auguri. Vi confesso che queste manifestazioni di stima e di affetto venute da ogni parte mi sono state di grande conforto. Vada a tutti la mia profonda e fraterna gratitudine”.

“Ho chiesto la parola - prosegue Di Vittorio - col proposito limitato, date le mie condizioni, di fissare brevemente alcuni punti fermi che mi sembrano risultare evidenti nel nostro Congresso. Il primo punto fermo è rappresentato indubbiamente dalla incrollabile fedeltà di circa 5.000.000 di lavoratori italiani di ogni corrente alla nostra grande, unita Cgil. Questa nostra unità, fondata sulle comuni rivendicazioni economiche e sociali di tutti i lavoratori, e cementata da lunghi anni di lotte comuni, esce maggiormente rafforzata da questo nostro quarto Congresso”.

La Cgil, oltre che una grande forza unitaria, “è centro motore dei fermenti unitari che vanno sviluppandosi in tutti gli strati del popolo italiano. Da ciò deriva l’obbligo per noi, compagni, di bandire dalle nostre file ogni residuo di settarismo, di assumere dovunque un franco atteggiamento di mutua comprensione e di collaborazione verso i lavoratori e militanti sindacali delle altre organizzazioni, di svolgere una costante attività unitaria capillare nelle fabbriche, nelle aziende agricole, negli uffici, nei servizi, come nelle città e nei villaggi, perché tutte le lotte per giuste rivendicazioni operaie, per i diritti del lavoro, per le giuste e sacrosante esigenze del popolo, siano condotte unitariamente, essendo l’azione unita la più forte garanzia del successo”. 

“No, l’Italia non andrà indietro, andrà avanti, perché avanti sarà portata dalle forze sane del lavoro - conclude il suo intervento Di Vittorio -. Sì, noi porteremo avanti la nostra patria sulla via del progresso e del benessere, della pace, della libertà, dell’amicizia tra tutti i popoli della terra. Avanti Cgil; per portare avanti la nostra Italia verso la conquista sempre superiore e più alta di benessere e di civiltà!”.

È l’ultimo Congresso di Peppino, che morirà l’anno successivo, il 3 novembre 1957, a Lecco, dove si era recato con la moglie Anita per inaugurare la nuova sede della locale Camera del lavoro.

Scriveva l’Unità il giorno dei funerali:

Diecimila, ventimila persone? Impossibile fare un calcolo. Così come è impossibile descrivere il sentimento della gente, la commozione che era nel volto di tutti: Giorgio Amendola con gli occhi rossi di lacrime, Longo con le labbra serrate, Pajetta con lo sguardo annebbiato dal dolore, una donna vestita di scuro con le guance rigate da due lacrime accorate, un impiegato che aveva afferrato le mani di Lizzadri e singhiozzava come un bambino. Per ore e ore quasi ininterrottamente fino a tarda notte e poi dall’alba fino alle 16, una fiumana di gente ha sfilato commossa davanti alle spoglie del segretario generale della Cgil, nell’atrio della Confederazione, in Corso d’Italia, trasformato in camera ardente. Erano lavoratori romani, operai, impiegati, professionisti, uomini politici, compagni, amici, avversari di Giuseppe Di Vittorio (…). C’erano camerieri con ancora indosso la giacca bianca, vigili notturni, telefonisti, gente che era appena uscita dai teatri, uomini di tutte le età che, forse, di Di Vittorio conoscevano soltanto il volto bruno e amico riprodotto dai giornali (…) Tutti i negozi, lungo il percorso avevano abbassato le saracinesche, così i cinema e i caffè. Pareva che tutta la città si fosse data questo mesto appuntamento e che si confondesse così ogni distinzione di ceti sociali, di età, di mestiere. Mischiati fra la folla abbiamo visto volti noti di amici, di operai e di intellettuali. Vasco Pratolini piangeva accoratamente in prima fila lungo l’ala destra di corso Italia; tipografi del giornale, fattorini, commesse di negozi, studenti, giardinieri di villa Borghese, pensionati delle ferrovie, operai in tuta della sede Pirelli, vicino a Piazza della Croce Rossa: tutti sostavano lungo il percorso. Era davvero come se fossero presenti qui i lavoratori di tutta Italia, quegli operai che tenevano ritratti di Di Vittorio nelle stanzette delle Commissioni interne, nei saloni delle Camere del lavoro, quei braccianti, quei mezzadri, quegli impiegati di ogni corrente sindacale e politica per i quali il nome del segretario della Cgil era prima di tutto il nome di un compagno e di un amico prezioso. Quando il carro funebre è giunto, verso le 17.40 al Piazzale delle scienze, una donna è giunta a toccare la bara e ha detto: Peppino, non te ne dovevi andare, abbiamo ancora tanto bisogno di te. La sua affettuosa parola sintetizzava i sentimenti della grande folla che lentamente si ammassava nel piazzale, caduta la sera, sotto la luce di potenti riflettori che illuminavano il palco eretto al fondo, le corone, le bandiere, i visi dei presenti.

Sentimenti che, in fondo, non abbiamo mai smesso di provare.