“Noi abbiamo questo problema, che ogni anno a settembre veniamo licenziati, e a maggio speriamo di essere assunti”. Le parole di Oscar, addetto al salvataggio sulla costa romagnola, sono la cornice entro la quale è necessario muoversi, per trattare di lavoro stagionale e indagare sulle criticità che lo caratterizzano e sulle difficoltà che vivono le lavoratrici e i lavoratori che ne garantiscono la funzionalità. Il primo problema, dunque, è nella sua essenza.

Un problema che non sarebbe più tale se a chi lavora alcuni mesi l’anno, assicurando così la buona continuità di servizi essenziali al sistema turismo che si basano su un’apertura stagionale, venissero garantiti i diritti essenziali: il rispetto del contratto nazionale, quindi uno stipendio dignitoso e un orario di lavoro che non sconfini nello sfruttamento, e soprattutto una disoccupazione equa che non li consegni, dopo le intense fatiche della stagione, a una condizione di oblio economico e sociale.

“Il lavoro stagionale, si sa, sono molte ore e poco stipendio”, riassume Enrico, stagionale per una decina d’anni nella ristorazione. Se pur giovane ricorda tempi migliori, con sei mesi di lavoro estivo e sei mesi di disoccupazione. E con stipendi che prima si aggiravano tra i 1.600 e i 1.800 euro al mese e che adesso scendono anche a 1.000, rendendo sempre più difficile affrontare il periodo di non lavoro con le risorse dei mesi lavorati. “Se ti va bene sono 10 ore, però d’estate anche 14 ore in alcuni hotel – racconta – e nella stagione non esiste il giorno libero, se proprio lo vuoi allora la paga diminuisce”.

Ancora nel 2019, quindi prima della pandemia, a Enrico è stato proposto uno stipendio più basso del solito, ripagato dalla prospettiva di un periodo un po’ più lungo: “Ma quando siamo arrivati alla stagione, a maggio, il datore di lavoro si è tirato indietro, ha detto che non c’era abbastanza lavoro e che mi avrebbe pagato ancora meno, solo 1000 euro invece dei 1.300 stabiliti”.

Enrico ha accettato perché non aveva altro in quel momento, ma appena ha potuto è andato altrove. E finita la stagione lì, in un altro posto ancora fino ad approdare, quest’anno, a un lavoro fisso in tutt’altro settore. Questa, per lui, la soluzione.

“Il nostro è considerato un comparto privilegiato, perché abbiamo un contratto in regola e un giorno libero settimanale – spiega Oscar, al suo attivo 32 stagioni sul litorale di Riccione – ma la normalità è che non esiste giorno libero e non esiste orario per i lavoratori stagionali: se si vogliono salvaguardare le professionalità e non ridurlo a un lavoro di passaggio verso qualcosa di diverso è necessario tornare a una Naspi più cospicua e più duratura”.

Chi lavora per grandi aziende o cooperative, come lui, vede rispettato il contratto, nelle realtà più piccole non è altrettanto certo. “Mia mamma, come tante altre, faceva la stagione negli alberghi – racconta –, il lavoro era massacrante, ma lavorava da Pasqua fino alla chiusura dell’albergo e con i soldi che guadagnava portava avanti la famiglia tutto l’anno. C’era chi riusciva a metter da parte dei soldi, chi piano piano è riuscito a comprarsi casa. Adesso chi fa la stagione guadagna poco e quando finisce, il giorno dopo, è in mezzo alla strada di nuovo”.

Laura – le diamo un nome di fantasia – si è avvicinata al lavoro stagionale quando studiava, come tante altre ragazze e ragazzi. “Lavoravo in un parco divertimenti, era un lavoro piacevole – ricorda –: ero molto giovane, venivo da lavori occasionali nelle fiere ed ero contenta di lavorare lì, all’inizio mi andava bene così. Poi ho cominciato a rendermi conto che per l’attività che svolgevo la retribuzione non era adeguata e non riuscivo sempre a coprire le spese universitarie con tranquillità, anche perché la disoccupazione quando ho iniziato io non era più quella di una volta”.

Laura sapeva che per lei quel lavoro non sarebbe andato avanti a lungo, avrebbe finito di studiare e fatto altro, ma da una stagione all’altra ha preso consapevolezza dei problemi che c’erano. Si è messa nei panni dei giovani colleghi appena arrivati, che avevano il progetto di continuare con le stagioni almeno per tutto il periodo universitario, ma anche di chi era lì da tanto tempo e non aveva il coraggio di esporsi. “Dovevamo essere reperibili ma non c’era indennità di reperibilità. C’era mancanza di garanzie – spiega Laura – ad esempio in caso di malattia ci si metteva d’accordo con l’azienda, era una sorta di trattativa privata.”.

Così si risolveva tutto, su un piano diverso da quello contrattuale. E poi “non essendoci una struttura fissa di lavoratori, anche se venivano fuori delle problematiche durante la stagione una volta finita si lasciava andare, e l’anno dopo era punto e a capo”. Durante l’inverno le difficoltà incontrate, come gli straordinari non retribuiti ad esempio, scomparivano, ricorda Laura: “Non si voleva sollevare scontento per un lavoro che durava solo tre mesi, e alla fine ci si faceva andare bene tutto. Era solo un lavoretto stagionale. Ma, scusami, un lavoro è sempre un lavoro”.