Una proposta di direttiva che porterà a una vera e propria rivoluzione per i rider e per i “platform workers”, i lavoratori delle piattaforme digitali in tutta Europa, che da anni chiedono maggiori tutele e più diritti. Verrà approvata l’8 dicembre dalla Commissione europea con il “pacchetto lavoro” messo a punto dal commissario per l’Occupazione e gli affari sociali Ue Nicolas Schmit, dopo un lungo iter di consultazioni con aziende e parti sociali. Il provvedimento, che mira a regolamentare un settore che secondo una stima a oggi dà lavoro a 28 milioni di europei, la stragrande maggioranza dei quali con rapporti precari, è orientato a introdurre la "presunzione di subordinazione". In pratica, si stabilisce che quello per le piattaforme è lavoro subordinato a tutti gli effetti, e si cancella il principio dell’attività autonoma e indipendente.

Si tratta di un concetto già conosciuto in Italia, introdotto dalla riforma Fornero nel 2012 per smascherare le finte partite Iva, che però si è scontrato con una serie di limiti legali e pratici. La proposta di direttiva, invece, dovrebbe riuscire a superare ostacoli e cavilli imponendo l’inversione dell’onere della prova. Facciamo un esempio. Se oggi un rider di Deliveroo si considera un dipendente, sta a lui dimostrarlo davanti al giudice, operazione non facile e impegnativa per via delle lungaggini burocratiche e dei costi, come abbiamo avuto modo di verificare anche grazie alla cause promosse dalla Cgil nei tribunali italiani. Quello che propone invece la Commissione europea, recependo la richiesta del Parlamento Ue, è che sia l’impresa e non il lavoratore a dover dimostrare che il rapporto non è subordinato al momento della stipula del contratto. Un duro colpo per i colossi della gig economy che hanno sempre considerato rider e autisti come prestatori autonomi e che con molta probabilità dichiareranno guerra al provvedimento.

“Il fatto che ci sia una direttiva sul lavoro in piattaforma, e che questa sia europea, è importantissimo – spiega Tania Scacchetti, segretaria confederale Cgil -. Perché questo tipo di attività ha impatti transnazionali e molte aziende sono delle multinazionali. È un buon provvedimento anche perché afferma diritti, tutele e trasparenza. Prima che diventi operativa, e che arrivi ad essere recepita dagli Stati passeranno mesi, se non anni. Deve superare il vaglio del Parlamento e del Consiglio e anche dopo non sarà automatica l’assunzione dei lavoratori come dipendenti. Quando verrà varata avremo modo di commentare gli elementi positivi e le criticità. Al momento, da quello che risulta, ci sono tre aspetti fondamentali”.

Innanzitutto il testo afferma che i lavoratori dei giganti del delivery devono poter accedere ad adeguate protezioni sociali. “Poi dice che le piattaforme sono dei datori di lavoro a tutti gli effetti – prosegue Scacchetti -: quindi chi presta la propria attività non lo fa per una App ma per un’azienda vera e propria, e introduce il principio dell’inversione dell’onere della prova. Infine, oltre a favorire la possibilità di sindacalizzarsi da parte dei lavoratori, determina l’obbligo di trasparenza degli algoritmi, che valutano e programmano il servizio, ma non devono costituire un fattore di discriminazione”. La valutazione chiesta agli utenti dopo aver ricevuto il prodotto e il resto dei dati relativi alle consegne che compongono il “rating” del lavoratore dovranno essere resi pubblici con una comunicazione formale, in modo da rendere consapevole l’interessato del metro di giudizio sul suo operato.

Uno studio della Commissione europea rivela che tra il 2018 e il 2020 gli introiti delle piattaforme digitali nell’Ue sono passati da 8 a 14 miliardi di euro all’anno. Nello stesso periodo la spesa per i lavoratori è rimasta pressoché invariata: 6 miliardi all’anno. Il settore del delivery, in particolare, ha visto quadruplicare i profitti: nel 2020 ha incassato 8 miliardi, ma appena 1 miliardo è andato ai rider. È arrivato il momento che anche a loro vada una fetta di questo successo, in termini di reddito e di tutele.