Salgono dal Magreb, tunisini e marocchini, rimangono nella piana a sud dell’Etna colorata dalla distesa delle piante di agrumi, solo per la durata della stagione del raccolto. Oppure scendono dall’Est Europa, muniti di regolare passaporto comunitario, rumeni e bulgari. Arrivano nella provincia di Catania, territorio a vocazione agrumicola, soprattutto arance, per cercare lavoro e guadagno. Trovano fatica, tanta, diritti e tutele niente, salario poco. E condizioni di vita che con la dignità e il decoro hanno davvero poco a che fare. E non finisce qui. Le diverse comunità devono pure conquistarsi “spazio” a discapito delle altre perché al mercato delle braccia hanno prezzi differenti. Sì, mercato: si svolge al mattino presto nelle piazze e nei crocevia delle strade che portano ai campi, lì uomini, a volte donne, in cerca di occupazione si “offrono” ai caporali che li reclutano secondo tariffa: attorno ai 20 euro per gli extracomunitari, tra i 40 e i 50 per gli italiani, i rumeni e i bulgari.

Contrattazione privata, dunque, e il rispetto del contatto e della paga contrattuale un miraggio, ammonterebbe a 72 euro a giornata. E senza contatto ovviamente, niente anche per quando riguarda tutele e diritti. Dai quei pochi euro vanno anche detratte le spese di trasporto che i caporali si fanno pagare. Condizioni di trasporto simili a quelle dei carri bestiame, stipati all’inverosimile in furgoni poco sicuri sia dal punto di vista della tenuta della strada sia, in questo momento soprattutto, da quello del distanziamento sociale per arginare la diffusione del coronavirus. Orario di lavoro? Senza limiti, rasenta le 12 ore giornaliere, a volte le supera. Una volta, bei tempi quelli, esisteva il collocamento agricolo che certo non azzera il caporalato ma almeno costituiva un canale legale per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

“Noi pensiamo sia arrivato il momento di una riforma del mercato del lavoro agricolo – afferma con forza Pino Mandrà, segretario generale della Flai catanese -.  L’intermediazione di manodopera deve tornare ad essere pubblica, unica via per farla uscire dalla clandestinità. A Catania abbiamo istituito la rete del lavoro di qualità come previsto dalla legge 199 del 2016, siamo convinti sia necessario approvare una norma, inserita nelle politiche attive per il lavoro, che preveda che per le aziende sia conveniente rispettare i contratti. Serve un marchio di qualità che permetta loro di competere in un mercato drogato dalle aziende che non rispettano le regole e che quindi hanno un costo del lavoro molto basso. Noi pensiamo che questo marchio deve consentire alle aziende di avere un accesso privilegiato nella grande distribuzione, e chi le regole non le rispetta invece no. Poi noi crediamo che le aziende che non rispettano regole e contratti non devono più accedere ai piani di sviluppo rurali”. Insomma la sola repressione non basta a arginare e sconfiggere un fenomeno per questa terra, antico, ma che oramai è diffuso in tutto il Paese. “Quindi, conclude il dirigente sindacale, occorre una riforma del mercato del lavoro agricolo, così il caporale non ha più un ruolo, ed è anche necessario bloccare le aziende che non rispettano le regole. Purtroppo nel nostro territorio sono tante”.