Regione che vai, sentimento che trovi. Potremmo sintetizzarla così, la vigilia della Fase 2. Per qualcuno, deluso dalla prudenza, saremmo alla Fase uno e mezzo. Per qualcun altro, animato da una considerevole dose di scetticismo, questa fase sarebbe prematura e potrebbe favorire un ritorno di fiamma della pandemia. Per il presidente del consiglio inizia un periodo in cui ci troveremo a convivere con il virus. Il problema è che nei chiaro scuri della mappa del Paese ridisegnata dalla malattia, ci sono territori martoriati che hanno paura di finire KO di fronte a una seconda ondata e altri, finora più o meno risparmiati, che potrebbero ritrovarsi nell’occhio del ciclone.

Due cose sono evidenti, come spiega perfettamente il segretario generale della Cgil del Veneto, Christian Ferrari. “Le preoccupazioni sulle ricadute economiche e sociali determinate dalla situazione sono più che fondate. Tuttavia è bene sottolineare, e di fatto questo è il ruolo che stiamo svolgendo, che la crisi sanitaria è tutt’altro che superata. Quindi non servono fughe in avanti, ma serietà, gradualità e grande prudenza. Per noi resta valido il principio che si lavora solo se sicuri. Soprattutto adesso che l’ultimo protocollo ha forza e valore di legge: o lo si attua o le attività produttive non possono continuare”. In Veneto nelle settimane passate Confindustria, nonostante il covid abbia colpito molto duro, ha fatto incetta di deroghe, spalleggiata dal governatore Luca Zaia che già a Pasqua considerava di fatto superata l’emergenza. Dal 4 maggio saranno al lavoro un milione e 200 mila persone, 300 mila in più di quelle che hanno continuato l’attività durante il lockdown. In tutto, più o meno, il 75 per cento dell’insieme degli addetti. C’è una falla in questo rientro? “Riaprire non basta”, risponde Christian Ferrari. “Devi fare i conti con un quadro economico di crisi totale. Quindi la prima cosa da verificare, oltre al rispetto delle norme sulla sicurezza, sarà se troviamo i fornitori e i clienti. E poi occorrerà monitorare gli elementi di contesto: il trasporto pubblico locale, dove siamo veramente all’anno zero e non esiste un piano per garantire il governo dei flussi. La capacità di risposta delle strutture sanitarie, soprattutto sul territorio. Gli screening di massa. E il tema del tracciamento. Presupposti fondamentali per individuare quanto prima eventuali focolai e agire con prontezza”.

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Quella della Cgil è una posizione lucida e uniforme nel quadro a macchia di leopardo che ci troviamo di fronte. Una posizione responsabile se la confrontiamo con le smanie di molti imprenditori che non avrebbero mai chiuso i loro cancelli e con le manie di protagonismo di alcuni governatori di regione che hanno fiutato da tempo la visibilità in dote all’emergenza. La corsa a chi la spara più grossa l’ha vinta Jole Santelli, presidente della Calabria ed ex pasdaran del lockdown, a costo dell’esercito in strada. Alle 10 di sera del 29 aprile ha smesso i panni dello sceriffo e ha firmato un’ordinanza con la quale ha dato il via libera alla riapertura dei bar e uno schiaffo all’ultimo dpcm, ritagliandosi un quarto d’ora di celebrità su tutte le prime pagine dei giornali nazionali. Una scelta – complicata da mille paletti – talmente azzardata da essere giudicata inattuabile da molti degli esercenti e illegittima da molti sindaci, persino tra i suoi compagni di partito. “Una donna sola al comando”, la definisce Angelo Sposato, leader della Cgil calabrese, che denuncia come non c’è mai stato, nonostante le richieste reiterate del sindacato, un momento di confronto sulla ripartenza. “Le forzature della governatrice sono state perpetrate a danno dei lavoratori e delle famiglie. Ha passato più tempo nei salotti televisivi che ad amministrare l’emergenza, senza assumersi le responsabilità del suo ruolo. In un momento nel quale la Calabria ha bisogno di una figura che gestisca seriamente la ripartenza, non di una governatrice che giochi a fare il capo dell’opposizione. E poi, per venire all’ultima boutade, chi garantisce la sicurezza ai lavoratori dei bar? I protocolli non ci sono e noi non siamo stati interpellati”. Temete un disastro vista la gestione? “Siamo preoccupati. Non solo dagli assembramenti che si sono verificati l’altro giorno a Cosenza. Ma anche dalla possibilità, prevista nell’ultimo dpcm, che i tanti calabresi che lavorano o studiano in altre regioni, adesso tornino in massa. Ci vorrebbe un piano per gestire questo rientro. Un protocollo rigido sulle fasi di ingresso, monitoraggio e quarantena. Ma anche questa richiesta è rimasta lettera morta”.

Se il profondo sud è preoccupato dagli scenari futuri, in Piemonte la tensione con la quale si guarda alla Fase 2 è figlia di un’attualità in cui l’aggressività del contagio non scema. Anche i dati delle ultime 24 ore sono allarmanti, per un territorio che ieri ha registrato 550 nuovi casi positivi al virus. “Occhi puntati sull’applicazione del protocollo – ci dice Massimo Pozzi, segretario generale della Cgil regionale – affinché sia attenta e scrupolosa. In caso contrario sarebbe facile ritrovarci a breve in una situazione addirittura peggiore di quella che viviamo adesso. Il problema si pone dove non ci sono rappresentanti sindacali e non c’è controllo di alcun tipo. Per questo abbiamo sollecitato una riunione in prefettura alla presenza della Regione per avere un quadro delle attività di controllo da parte di Spresal, ministero del Lavoro, Inail e Nas. È necessario che facciano le verifiche”. Qual è la più grande preoccupazione? “Di fronte all’aumento del rischio di nuovi contagi, siamo preoccupati dal fatto che il Piemonte finora non è stato in grado di utilizzare sistemi di tracciamento e di screening e la sanità, nonostante il grandissimo impegno e l’efficienza negli ospedali, sul territorio non era preparata”.

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Il nostro viaggio finisce a Roma, capitale fortunata se pensiamo a quello che è successo a Londra, Madrid e Parigi. Fino ad oggi i numeri del contagio sui sette colli sono stati contenutissimi. Adesso la paura è che questo risultato, ottenuto facendo tesoro per tempo delle cronache drammatiche provenienti dal nord, sia messo in crisi dalla ripartenza. Per Michele Azzola, segretario generale della Cgil capitolina, “questa è la fase più complicata nella gestione della crisi, perché noi dovremmo far riaprire le attività sapendo che dovremo mantenere una rigorosa attenzione sul lavoro e sui comportamenti sociali delle persone”. Quali sono le priorità? “Uno dei terrori è il sistema di trasporto pubblico locale. Le regole individuate non sono assolutamente adeguate. Si parla di autobus che dovrebbero riempirsi per la metà della capienza: questo non permetterà alla gente di rispettare il distanziamento sociale. Queste situazioni rischiano di diventare punti di contatto fisico importante. L’altra priorità, legata anche alla questione trasporti, è lo smart working, la cui regolamentazione, per altro, è indispensabile. Capire quanta gente continuerà a lavorare da casa è fondamentale per sapere quante delle 700 mila persone che prima dell’emergenza ogni giorno venivano a lavorare in città dalla provincia, riprenderanno a farlo. In più chiediamo ai sindaci di modulare gli orari al fine di depontenziare le ore di punta, in vista del vero problema che si presenterà il 18 maggio, all’apertura dei negozi. Per questo la prossima settimana avremo un incontro con Regione e Comune”. Qual è il rischio vero? “Qui il virus è girato pochissimo: se partisse ora troverebbe praterie”.

Eccoci, in ordine sparso, in attesa di capire cosa succederà, tra code alle fermate dei mezzi pubblici e uffici che torneranno a riempirsi di lavoratori con le mascherine. Senza contare che le scuole restano chiuse e in tantissimi dovranno trovare una soluzione per i figli. Preoccupazioni di ordine pratico alle quali se ne aggiunge una, condivisa da molti medici e virologi: che questa Fase 2, nonostante la prudenza del governo, sia accolta come un “liberi tutti” dai cittadini. Soprattutto al centro e al sud, dove il coronavirus non ha mai mostrato il suo volto più aggressivo. Abbandonare ogni attenzione adesso potrebbe rivelarsi un errore fatale.