Sveglia presto, se si fa il turno di mattina, colazione e poi giù, tra le strade di una cittadina semi-deserta come non lo era mai stata prima. Con i pochi in giro ci si guarda con diffidenza, si prendono le distanze anche dai volti noti del quartiere e si tira dritto, verso la propria destinazione. Fabio, dipendente della Kimberly Clark di Romagnano Sesia, in provincia di Novara, non ci ha mai pensato neanche per un secondo di smettere di lavorare. “Noi produciamo carta igienica, fazzoletti di carta, rotoloni asciuga tutto. Non ci possiamo fermare”. Lo considera un bene essenziale quello prodotto nella fabbrica dove lavora anche se, osserva, bisogna fare delle distinzioni. 

“Si fa presto a dire carta”: c’è quella che serve per stampare i giornali, quella usata per gli alimenti, quella per imballare i pacchi, non è tutta uguale né indispensabile. Dopo il decreto del governo “a noi è stato subito chiaro che avremmo dovuto lavorare - osserva Fabio - ma dietro la nostra produzione c’è una filiera complessa” e non è stato facile capire nell’immediato cosa si dovesse fermare e cosa no. “Per quanto ci riguarda, la produzione è aumentata, a volte si fatica a riempire gli scaffali. Abbiamo dovuto anche rivedere il nostro modo di produrre, per riuscire a starci dietro”. Ma non è l’unica ragione: i colleghi con patologie particolari e problemi di salute sono stati messi da subito in smart working, quindi chi resta in sede deve lavorare un po’ di più, “è giusto così”. Fabio Medina, in azienda, sta sulle linee di allestimento della carta. È anche delegato sindacale della Slc Cgil e presidente del Cae (il comitato aziendale europeo) e di questo suo ruolo ne va molto fiero, ancora di più in queste settimane.

“Abbiamo fatto le cose a modino”: un enorme lavoro per mettere nero su bianco un protocollo sulla sicurezza, sviluppato grazie alla costituzione di un comitato di crisi, con la partecipazione delle rsu, degli rls e degli rspp (i responsabili del servizio di protezione e prevenzione). Il documento che hanno elaborato, condiviso con le segreterie regionali e con quella nazionale del sindacato di categoria, diventerà un modello cui fare riferimento. È stato il protocollo zero, replicato negli altri stabilimenti europei e mondiali della multinazionale. Fabio racconta con orgoglio che, grazie all’impegno di lavoratori e delegati sindacali come lui, nella sua azienda le norme di sicurezza specifiche sono state adottate sin dall’inizio, con una serie di istruzioni operative.

La Kimberly Clark è una cartiera a ciclo continuo: quattro turni di mattina, due riposi, quattro turni di notte. Non si entra in fabbrica senza prima essere passati dal controllo della temperatura. Ci si cambia negli spogliatoi, si indossano occhiali, tappi per le orecchie mascherina e guanti in vinile soprattutto perché, in alcune postazioni, è difficile mantenere la distanza di un metro. A intervalli regolari, durante le pause per il riposo acustico, si va nella zona relax, per mangiare qualcosa, fumare una sigaretta o sdraiarsi cinque minuti. Solo che adesso si entra uno alla volta. Per la mensa sono stati aumentati i turni, in modo da ridurre il numero di posti a tavola. La domenica, quando la fabbrica è chiusa, viene sanificata in 128 punti.

“Insomma, da noi le regole si rispettano, abbiamo fatto un lavoro enorme col sindacato e con l’azienda per condividere le migliori pratiche” e questo, secondo Fabio, ha fatto tirare un grosso sospiro di sollievo a tutti i suoi colleghi. Certo, ammette, un po’ di paura c’è, nonostante tutte queste norme di sicurezza adottate. E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che Fabio e i suoi colleghi non possono restare a casa. Ma lui guarda a tutta questa vicenda anche come a una grande lezione da imparare. “Quando questa lunga notte passerà - dice, e sembra quasi citare una canzone di De Gregori - dovremo tutti riconoscere il giusto valore che hanno il servizio sanitario e il sindacato”. Senza il loro operato, conclude Fabio, non sarebbe possibile superare la sfida che abbiamo di fronte.