Questa è la nona tappa di un viaggio tra storie di inclusione, resistenza e disobbedienza civile. Storie di persone, istituzioni, associazioni e sindacati che compongono un'Italia diversa. Perché a fare da contrappeso al razzismo strisciante che attraversa il Paese da anni, c'è anche un Paese che resiste, giorno dopo giorno, all'odio contro i migranti riversato sui social network da migliaia di account, veri o falsi che siano. Un'Italia che dice no. E che spesso non ha voce, che non trova quasi mai spazio nei talk show televisivi, nei “trend topics”, o sulle prime pagine dei quotidiani. Eppure c'è, e si dà da fare. Sempre nel rispetto dei princìpi della Costituzione.

Prima tappa: Saluzzo​ | Seconda tappa: Catania Terza tappa: Ventimiglia | Quarta tappa: Ferrara | Quinta tappa: Matera | Sesta tappa: Gioia Tauro  | Settima tappa: La Spezia | Ottava tappa: Roma

“La normalità è una cosa difficile da spiegare”. Massimo sorride e apre le braccia, quasi a voler stringere a sé tutta la famiglia. Pelata, pizzetto brizzolato, occhi allegri e spalle larghe da rugbista. Siamo nel cuore dell'Umbria, tra i boschi ai piedi dell’Appennino centrale. Fuori c'è Gaifana, una frazione di Gualdo Tadino, 173 anime sparse in una manciata di bassi edifici lungo la Flaminia. A un tiro di schioppo Nocera Umbra, il simbolo del terremoto del ’97, con l’83 per cento della popolazione costretta a lasciare le proprie case. È stata ricostruita, oggi è un gioiellino, ma è ancora mezza abbandonata. Nient’altro che un guscio di pietra vuota. Oltre la consolare, a neanche duecento metri, un altro guscio vuoto, stavolta di lamiera, enorme e bianco: la ex Merloni coi suoi nove ettari coperti e cinque di parcheggio. La casa di Massimo, invece, è piuttosto affollata: “Abbiamo sei gatti, quattro cani, un coniglio, due tartarughe e un riccio che ogni tanto viene a mangiare qualcosa dalle ciotole. Ti pare che avrei avuto problemi ad accogliere qualcun altro?”.

Moussa, però, si fa attendere. È in camera sua, al piano di sopra. È l'ora della preghiera, e lui è un musulmano praticante. “Quando lo abbiamo visto per la prima volta gli ho detto: noi fumiamo, beviamo alcolici, mangiamo maiale e siamo atei. Se ci accetti per quello che siamo, sei il benvenuto”. E Massimo sorride ancora. È passato esattamente un anno. Nell'ottobre 2018 gli operatori di Cidis, una onlus che si occupa di accoglienza, diritti e integrazione dei migranti, hanno organizzato il loro primo incontro. Da una parte la famiglia Manali: Massimo, vigile urbano a Perugia e delegato della Fp Cgil, sua moglie Rita che lavora in una casa-accoglienza e il figlio Federico, 20 anni, studente universitario. Dall'altra Moussa Dembélé, maliano, allora diciottenne, appena uscito da una struttura per minori stranieri non accompagnati di Intersos.

UNA FAMIGLIA NORMALE
Rita s'era iscritta a un corso per tutore volontario per bambini e ragazzi arrivati soli in Italia, una figura introdotta nel 2017 dalla legge Zampa e che oggi si affianca al tutore istituzionale. “A dire il vero – racconta – ce n'eravamo proprio dimenticati, poi dopo un bel po' è arrivata la telefonata di Manuela”. Manuela Pinnacoli è stata la tutor di Moussa per i primi sei mesi di permanenza a casa Manali. “Poco prima s'era rivolto al nostro sportello – racconta – perché gli era stata riconosciuta la protezione umanitaria, ma aveva un processo in corso per l'ottenimento di quella internazionale. La nostra operatrice ce lo ha segnalato e allora l'abbiamo incontrato. Moussa mi ha colpito da subito. È un ragazzo molto serio, mi ha detto che voleva fare l'avvocato ma che, vista la situazione, era un desiderio praticamente irrealizzabile. Io gli ho risposto che invece doveva insistere e continuare a inseguire i suoi sogni. Quindi abbiamo cominciato questo percorso”. Così, il 28 gennaio 2019, Moussa è arrivato a Gaifana. “Per noi accogliere un ragazzo straniero è stata una cosa assolutamente naturale – spiega ancora Rita –, non ci abbiamo visto nulla di strano. Dove si mangia in tre si mangia anche in quattro. Non è cambiato niente, ognuno ha i suoi spazi. E poi grazie a lui abbiamo anche recuperato qualche buona abitudine familiare che avevamo un po' perso, come quella di mangiare tutti insieme, sempre”.

“Dove si mangia in tre si mangia anche in quattro”

L'unico problema l’hanno avuto con i panni da lavare: “La casa era piena di stendini, non sapevo più dove metterli. Poi abbiamo comprato un'asciugatrice”. “Anche per me è stata una cosa naturale, visto che eravamo tutti d'accodo – continua Massimo –. Al lavoro, invece, più di qualcuno s'è stupito. Allora, quando m'hanno chiesto perché ho accolto un migrante, ho risposto: così la smettete di chiedermi perché non te li prendi a casa tua”.

La famiglia Manali

IN VIAGGIO PER SEI ANNI
Ora nel salotto di casa Manali è sceso anche Moussa: calzoncini corti, maglietta verde, barbetta ispida e capelli a spazzola. Ha uno sguardo sereno e un po' assonnato. Si fanno battute, si scherza, come in una qualsiasi famiglia, una famiglia normale. Poi lui si siede e comincia raccontare la sua storia in un buon italiano: “Sono scappato da Mali quando avevo solo 12 anni ed è scoppiata la guerra”. Nell'aprile del 2012 era a Gao, la città occupata a colpi di mitra dai ribelli Tuareg, che poco dopo hanno dichiarato l’indipendenza dell'intera regione dell’Azawad.

“Per arrivare dal Mali in Italia ci sono voluti sei anni”

“Mia zia è rimasta lì, io invece ho seguito un gruppo di sfollati. Non sapevo dove andassero, ma mi sono ritrovato in Nigeria”. Dopo un altro viaggio rocambolesco, Moussa è arrivato in Algeria. “Lì ho vissuto con una famiglia per tre anni e mezzo”. Ancora una volta, però la guerra lo ha raggiunto. Nel luglio 2015, le città di Gherdaia, Guerrara e Berianne, a circa 600 km da Algeri, sono state teatro di violentissimi scontri tra la comunità araba e quella berbera mozabita. “La famiglia dove stavo è scappata, e mi ha lasciato lì a custodire la casa e le pecore. Poi sono arrivati degli uomini con la barba lunga, mi hanno cacciato e hanno dato fuoco a tutto”. Moussa allora è arrivato in Libia, luogo di smistamento per quasi tutti i migranti subsahariani. Da lì, con un barcone, è sbarcato in Italia ancora minorenne. Il suo viaggio è durato circa sei anni.

Massimo e Rita lo osservano con affetto e un po' di commozione. Come, normalmente, si guarda un figlio che è appena uscito da un'esperienza difficile. È accanto a Federico. “Guardali – dice ancora Massimo –, mo’ si somigliano pure”. E ride. Durante la settimana i due ragazzi dividono una stanza nel quartiere Elce di Perugia. Moussa sta studiando per diplomarsi al Centro provinciale per l'istruzione degli adulti ed è anche impegnato in una borsa-lavoro a ‘Leroy Merlin’. Federico invece va all'università. Nel fine settimana si ritrovano qui, a Gaifana. “La convivenza l'avevo già provata in altre occasioni – spiega Federico –. Con lui non è cambiato nulla. È tutto normale. Magari ho imparato a gestire un po' meglio le faccende di casa”. “L'altro giorno siamo andati a fare la spesa – interviene ancora Massimo, non senza un po' di orgoglio adesso – e visto che finalmente guadagna qualche soldo ha insistito per pagare lui”. “Certo – lo interrompe Moussa –, sono uno di famiglia, quindi mi piace dare una mano. Non è che prima che arrivassi io non si faceva la spesa. Però, finché ci sono e lavoro, voglio aiutare. In famiglia si fa così”.


In casa Manali - Video di Fabrizio Ricci

MAI PIU' SOLI
La storia di Moussa è forse il risultato più eclatante di un progetto che si chiama “Mai più soli”. È organizzato da Cidis con altri cinque partner: Asgi, cooperativa Nuovo Villaggio, Refugees Welcome Italia, e i Comuni di Corigliano Calabro e Mugnano di Napoli, e finanziato dal Fondo Never Alone - Per un domani possibile. L'obiettivo è garantire un’accoglienza su misura per i minori che arrivano soli in Italia e per i neo-maggiorenni in Calabria, Campania, Lazio, Umbria e Veneto. Il principio che guida il progetto è: un ragazzo, una famiglia. Per i minori l’obiettivo è l'inserimento attraverso la messa a regime del sistema dei tutori volontari e dell’affido familiare. Per i neo-maggiorenni come Moussa, invece, si cerca di sviluppare procedure alternative alle classiche strutture di accoglienza. Quello all'età adulta per questi ragazzi è infatti un passaggio cruciale, anche perché con l'introduzione dei decreti sicurezza i migranti soli che compiono 18 anni in Italia rischiano davvero grosso.

Venuta meno la protezione umanitaria, i neo-maggiorenni rischiano la clandestinità

Venuta meno la protezione umanitaria, di fatto, potrebbero non avere più titolo per restare in Italia, a meno che non riescano a ottenere la protezione internazionale. Il passaggio dallo status di minore, ben tutelato dalla legislazione italiana, alla condizione di straniero, cioè soggetto a un regolamento piuttosto restrittivo (e al rischio concreto di diventare clandestino), è diventato traumatico per tutti. Per i ragazzi, certo, ma anche per gli operatori delle case famiglia, i formatori e soprattutto per i tutori, che vedono vanificati sforzi e progressi fatti nel corso di un lungo e complicato processo d’integrazione. “Il nostro obiettivo – spiega ancora Manuela Pinnacoli – è aiutare questi ragazzi a crescere e a diventare autonomi nel minor tempo possibile. È una sfida, perché l'accoglienza in famiglia dura solo sei mesi, un tempo veramente limitato. Con Moussa, però, abbiamo fatto un buon lavoro. Tanto che dopo la conclusione di questo percorso lui è rimasto qui, e io continuo a seguire i suoi progressi a distanza”.

ALCHIMIE PER L’INTEGRAZIONE
“Bisogna limitare le situazioni di fragilità totale, che espongono soggetti vulnerabili a pericoli enormi. I giovani stranieri arrivati soli che escono dalle strutture di accoglienza sono abbandonati a se stessi. Senza una casa, senza un lavoro, senza una rete di sostegno. E possono davvero finire per strada o nelle mani della criminalità. Per non parlare delle ragazzine, che rischiano di diventare vittime di tratta”. Sara Necoechea è la referente umbra di Cidis per il progetto ‘Mai più soli’. E con le sue origini, messicane, basche e italiane insieme, racchiude in sé il multiculturalismo di cui parla con tanta passione. La sede perugina di Cidis è nella Casa dell'associazionismo, in un antico monastero che s'affaccia su un vicolo di pietra, in pieno centro storico. Dentro, un grande chiostro circondato dagli archi. Al centro un enorme pino. Dalla finestra arriva nitido il rintocco delle campane. “I ragazzi nelle strutture di prima accoglienza – continua Sara – spesso si confrontano solo tra di loro, non entrano veramente in contatto con la comunità italiana. Andare a vivere in una famiglia genera invece un processo di vera inclusione e rende possibile per questi ragazzi un futuro di autonomia e indipendenza. Oltre a ricreare dei legami affettivi che hanno perso e di cui hanno un disperato bisogno”.

“Vivere in una famiglia genera un processo di vera inclusione”

“Quelle che accolgono, però, non devono necessariamente essere famiglie tradizionali – spiega ancora Laura Panella, responsabile comunicazione Cidis –. Possono anche essere donne o uomini single, o magari studenti. Basta che ci sia la disponibilità e uno spazio dignitoso per tutti. Ogni volta si crea un'alchimia diversa, e si supera ogni barriera culturale. Spesso i migranti neo-maggiorenni vengono accolti in famiglie che vivono in piccoli centri, magari in zone depresse, e questo costringe le persone che vivono in quei territori a conoscere per davvero chi arriva da altri paesi”. Tutto questo è tanto più vero nelle aree interne, in cui lo spopolamento è ormai diventato un serio problema per la collettività, come dalle parti di Gaifana. “L'accoglienza che proponiamo anche in altri territori, come in Calabria e in Campania, è un beneficio per tutti – racconta Laura –. A Napoli, ad esempio, abbiamo trasformato un centro di accoglienza in una casa-vacanza in cui continueremo con le nostre attività (sportelli per migranti, laboratori e scuole d’italiano ecc. ndr) aggiungendo però una struttura ricettiva nella quale lavorano a rotazione dei migranti, che in cambio ricevono vitto e alloggio. Si chiama Casa Cidis e offre loro un’opportunità formativa, ma anche la possibilità di fare rete e di inserirsi nel tessuto sociale locale. È un altro passo nel percorso della nostra associazione, che da oltre trent'anni lavora a 360 gradi sul tema della diversità e dell'immigrazione, adattandosi di volta in volta alle situazioni che si creano e accompagnando così l'evoluzione del fenomeno migratorio”.


Nella sede di Cidis - Video di Fabrizio Ricci 

LA BICI DI GANYA
Dopo più di qualche curva, ma non molto distante dal centro, c'è la sede della Cgil regionale e della Camera del lavoro di Perugia. Da dietro un palazzone giallo spunta la bicicletta di Ganya Jallow, un ventenne gambiano. Anche lui è arrivato in Italia da minore non accompagnato. E anche lui, nonostante abbia subìto torture e soprusi sia nel suo paese che in Libia, s’è visto respingere dal tribunale la richiesta di permesso di soggiorno per motivi umanitari. Ganya ha svolto per tre mesi uno stage retribuito, proprio qui, in Cgil. Era all'accettazione. Prima c'era stato Modou Sane, un ragazzo senegalese che ora ha trovato lavoro in un'agenzia di sorveglianza a Foligno. Presto Modou verrà stabilizzato, e potrà ottenere il permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Ganya spera di seguire il suo esempio. È timidissimo e il suo italiano non è certo dei migliori. “Voglio imparare la vostra lingua – balbetta – e voglio lavorare qui in Italia. La Cgil mi ha dato una mano, mi stanno anche aiutando a cercare un lavoro e a sbrigare le pratiche per la richiesta del permesso di soggiorno. Mi hanno pure regalato questa bicicletta”.

“Estrometterli dalle tutele significa spingerli verso la criminalità”

Gli stage attivati dal sindacato, in effetti, sono funzionali alle azioni legali. Dimostrare impegno nel processo di inclusione può aiutare a ottenere lo status di rifugiato. “Ci stiamo dando da fare per diventare anche uno strumento di integrazione per questi ragazzi – racconta Barbara Mischianti, della segreteria regionale della Cgil dell'Umbria –. È importante, perché queste persone saranno presto cittadini europei e devono cominciare un percorso da lavoratori. Per iniziarlo, però, hanno bisogno di competenze e di aiuto concreto”. Anche per questo il sindacato ha aderito alla campagna nazionale #IoAccolgo. Da poco è nato il comitato umbro, e tra i promotori c'è pure la Cgil. “Molti scappano dalla guerra, altri sono migranti climatici o economici – continua Mischianti –. Le difficoltà di tutti, però, nascono dal fatto che sono soli. È quindi necessario creare una rete di solidarietà per difenderli ed evitare che entrino in sistemi di illegalità che noi conosciamo molto bene. Estrometterli dalle tutele, come succede con un approccio troppo securitario al fenomeno migratorio, spesso significa spingerli nelle mani della criminalità. Tutti i soggetti economici e associativi dei territori dovrebbero invece creare percorsi di integrazione e lavorativi. Perché è il fare insieme che crea solidarietà, è la conoscenza che abbatte i muri, è il lavorare gomito a gomito che crea l'integrazione”.

Ganya Jallow nella sede della Cgil

UN’EMERGENZA TEMPORALE
Moussa, Ganya e Modou sono solo tre esempi di un fenomeno, quello dei giovani migranti diventati maggiorenni in Italia, di cui si parla molto poco. Dopo l’entrata in vigore del decreto sicurezza, però, si è generata una possibile emergenza temporale. Secondo l’articolo 13 della legge Zampa, infatti, le misure di accompagnamento verso la maggiore età potevano essere estese fino al compimento dei 21 anni per coloro che avevano bisogno di un supporto prolungato. Il decreto Salvini, invece, elimina questo paracadute, e il 58,9 per cento dei minori soli rischia ora di diventare clandestino. Secondo i dati del ministero degli Interni, negli ultimi tre anni i minori approdati sulle coste italiane sono 36.878. In 20.862, nel frattempo, hanno compiuto 18 anni. Un numero che tra l’altro è destinato a crescere, visto che l’86 per cento dei giovani migranti presenti a giugno 2019 ha 16 o 17 anni.

Negli ultimi tre anni i minori approdati sulle coste italiane sono 36.878

Il problema, ovviamente, non riguarda solo l'Italia. Secondo l’Eurostat 19.740 minori non accompagnati hanno fatto domanda di asilo in Europa nel 2018. Il 75 per cento dei minori non accompagnati, anche in questo caso, ha tra i 16 e i 17 anni. La loro presenza è in costante calo dopo il picco raggiunto nel 2015 e sta tornando ai livelli precedenti la cosiddetta ‘crisi migratoria’. Le bombe sganciate sul nord della Siria e l'invasione da parte dell'esercito turco, però, rischiano di far ingrossare a dismisura le fila dei profughi. In ogni caso, non si tratta di cifre astronomiche, se confrontate con quelle delle migrazioni nel loro complesso. Una soluzione possibile, quindi, sarebbe proprio implementare progetti come quello che ha portato Moussa a casa Manali.

Moussa Dembélé davanti a casa Manali

A Gaifana, intanto, è quasi sera, ma Moussa continua a parlare: “Quando mia madre ha saputo della mia situazione mi ha detto: visto che non posso aiutarti io a realizzare il tuo sogno, tratta la donna che ti sta ospitando con il rispetto che porti a me. Io voglio ancora diventare un avvocato, per conoscere i miei diritti e aiutare anche altre persone. Non sarà facile, lo so, perché devo lavorare per mantenermi e rendermi indipendente. Però ora ci posso provare davvero”. “Adesso che lo conosco bene – dice Massimo – so che è un ragazzo molto intelligente. Lui sa che deve impegnarsi, ma se si convince di qualcosa alla fine riesce sempre. Deve continuare gli studi, perché è portato e perché la sua forza di volontà gli può consentire di arrivare dove vuole. È una cosa normale, no?”.

Moussa ci accompagna fuori. Ormai è il tramonto. Sulla cassetta della posta di casa Manali hanno aggiunto con un pennarello il suo cognome: Dembélé. “Come il giocatore del Barcellona”, dice lui. Un gruppo di anziani se ne sta seduto su una panchina a chiacchierare del più e del meno. Lo guardano solo per un attimo, senza troppo interesse, poi riprendono a discutere tra di loro. Lui sorride, saluta e si chiude dietro le spalle la porta di casa sua.