La professoressa ferita a Varese è soltanto l’ultima vicenda di una serie di episodi che confermano la realtà di una crescente emergenza educativa nelle scuole italiane.  Ancora una volta ci troviamo costretti a commentare un fattaccio avvenuto nelle nostre scuole. Poco dopo il suono della campanella della prima ora, una professoressa di un istituto superiore di Varese è stata più volte pugnalata alla schiena da uno studente non ancora maggiorenne, con un coltello a serramanico.

L’aggressore è stato prontamente individuato, e altrettanto prontamente definito “soggetto a diagnosi funzionale”, vale a dire individuato come un ragazzo con problemi psichici rilevanti. Detto che l’insegnante è stata subito sottoposta a intervento chirurgico, e che la sua situazione medica sembra evolversi al meglio, diventa ormai difficile chiudere gli occhi di fronte a quella che sembra invece configurarsi sempre più come una vera e propria emergenza educativa, indipendentemente dalla condizione mentale dell’alunno protagonista dell’aggressione.

Osservando le reazioni istintive delle istituzioni scolastiche, che hanno subito inviato gruppi di supporto psicologico per studenti e professori, e l’intervento del Ministro Giuseppe Valditara, lesto nel calcare la mano sul voto in condotta come valutazione di carattere essenzialmente punitivo, non saranno certo l’apertura dell’ennesimo sportello di ascolto o provvedimenti disciplinari esemplari a modificare d’incanto una situazione divenuta negli anni sempre più preoccupante.

La realtà sembra essere ben più complessa, e di non facile soluzione. Dal punto di osservazione che si può avere dietro una cattedra, appare evidente il progressivo smantellamento di un codice etico, se vogliamo così definirlo, di cui siamo unici responsabili noi adulti, professori e genitori: noi professori, perché troppo spesso non riusciamo a trovare un punto d’incontro con i nostri studenti, un territorio comune entro cui confrontarsi, parlarsi, discutere, al di là del programma didattico di turno; l’ora di lezione a volte scorre velocemente, si devono raggiungere obiettivi e competenze, e il tempo per approfondire anche argomenti di carattere sociale, civile, di comunità, sembra proprio impossibile da ricavare.

Di contro, altre volte la lezione scorre in maniera talmente lenta, quasi un supplizio reciproco, che instaurare anche un rapporto di fiducia, se non confidenziale, sembra essere quasi una chimera, tra l’altro vissuta da entrambe le parti quale esercizio sostanzialmente inutile. Molti colleghi sanno non essere così, perché altrettanti conoscono, praticandolo quotidianamente, il valore e l’importanza del dialogo. Per questo a volte, scesi dalla cattedra, torna la domanda attorno a cui ruotano gran parte delle brutte storie provenienti dalle nostre aule: ci sarà dialogo a casa? E che tipo di dialogo sarà?

Si fatica, per esempio, a pensare una conversazione proficua tra i figli e quel genitore che giusto un paio di settimane fa a Cosenza ha schiaffeggiato un dirigente scolastico perché la figlia è stata esclusa da un progetto di alternanza scuola-lavoro; altrettanto ostico immaginare un buon modello educativo in quella famiglia che non ha ritenuto di doversi scusare con la professoressa anche lei accoltellata lo scorso da un sedicenne in un liceo scientifico, davanti al resto della classe, senza ricevere le scuse neanche del ragazzo.

Che poi, tutti questi coltelli dove li prendono questi ragazzi? Forse sarebbe meglio per loro, sarebbe meglio per tutti, acquistare piuttosto qualche libro in più, per poi leggerlo e commentarlo insieme. Troppe volte, noi adulti, non abbiamo più tempo neanche per quello.