“Siamo in zona rossa da 75 anni: siamo abituati”. La parola d’ordine, all’indomani dell’ingresso per forza di decreto di Reggio Emilia nelle province più a rischio, è stata: sdrammatizzare. I reggiani sono fatti così, sono “teste quadre” ossia hanno gli spigoli, anche laddove dovrebbero essere arrotondati. Scherzano delle loro disgrazie, del loro essere schiacciati dalla protervia parmigiana (cui hanno però scippato la monumentale stazione dell’Alta Velocità Mediopadana) e dello sprezzo della lentezza modenese made in Ferrari (cui contendiamo il primato dell’aceto balsamico).

La città è deserta: molti dei titolari di ristoranti e bar si sono uniti in un comitato #ristoratoriREsponsabili e hanno deciso di non rispettare le ordinanze, ma di chiudere del tutto per evitare si verifichino aggregazioni di persone e quindi possibili occasioni di contagio. Alcuni dicono che il distanziamento sociale acuirà una situazione di individualismo già presente nel nostro tessuto sociale aggiungendo disgregazione a disgregazione. 

La mia piccola esperienza di confinato è di segno contrario. Evito più che posso i centri commerciali, dove la grande distribuzione impera e riesce a fare affari d’oro grazie alla psicosi collettiva della paura irrazionale della fame. Quando proprio devo andare, indosso una mascherina destinata a mia madre ottantaseienne che però, non uscendo mai, non utilizza. La prima volta che l’ho indossata mi sono sentito fortemente a disagio. Ora la metto pensando che sto tutelando soprattutto chi lavora in quelle realtà, commessi e cassiere, ausiliari e addetti alle vendite, per i quali la “comprovata ragione lavorativa” si traduce nel mettere a rischio la loro salute, oltre che a fare i conti con l’isteria collettiva. 

“Sabato e domenica chiuderete”, dico alla cassiera che mi sta battendo il conto, mascherina e guanti blu. “Ah sì? Nessuno ci ha detto nulla, sarebbe ora! Mio figlio sarà contento”. Mi sorride. Il sindacalista che è in me, e che qualche volta mi spaventa, sta per metterla in guardia sul probabile esproprio non autorizzato di ferie e permessi per coprire le ore già messe in calendario nel weekend. Mi taccio. Una signora ben distanziata ride a una mia battuta, non mi ricordo quale. Nel suo guardarmi c’è voglia di vicinanza, di rompere la barriera spessa un metro che abbiamo elevato. 

Quando non sono al computer, quando non sono al telefono, quando non sto cucinando, quando non sto leggendo, quando non sto accudendo mia madre, cammino. Preferibilmente la mattina, preferibilmente presto. La poca gente che incontro si allontana quando mi incrocia. Non vedo in questo comportamento paura, ma senso civico. Alcuni sembrano scusarsi con lo sguardo. 

Faccio la spesa nei negozietti del centro e così evito di ingrassare la Distribuzione Moderna e Organizzata. Ho scoperto una salumeria molto carina, che non avevo mai notato, gestita da marito e moglie non più giovani. Fuori hanno esposto un cartello: “Non si entra in più di tre alla volta, tenersi a distanza”. Hanno un sacco di cose buone e mi accolgono come un benefattore: si capisce che di clienti ne stanno vedendo pochi; si capisce che a casa si sentirebbero perduti e stanno lì in compagnia di ore sempre più lente da passare.

Mentre penso a cosa prendere per il pranzo di mia madre, entra un corriere con una mascherina abbassata. È un signore anziano e sta portando pasta fresca, in vassoi sigillati. “Mi hanno detto di stare a casa, di prendermi un giorno di ferie! Col c.! Così non mi pagano. Io sono sopravvissuto al colera a Napoli, avevo la fidanzata a Napoli. Lei se l’è preso, io no. Mi aveva già lasciato, così impara! E ride. Ridiamo tutti. Ci attacchiamo a quella battuta come naufraghi a un legno marcio. C’è voglia di rompere quella barriera spessa un metro, di chiedersi scusa per le troppe volte che ci siamo ignorati, dandoci per scontati, reputandoci eterni, disinteressandoci di tutto ciò che non fosse noi. 

Nel fare il tragitto inverso che mi riporta a casa, davanti al computer, al telefono, dietro le ossessioni maniacali per la pulizia di mia madre, mi accorgo di aver paura. Quella paura dell’ignoto che era quotidiana per uomini di altre epoche e che noi non siamo più in grado di gestire, la sento in ogni mio singolo nervo. La giornata termina alle 18 circa col bollettino di guerra della Protezione civile e i conteggi di nuovi contagiati, deceduti, guariti. 

A chi mi chiede come organizzare il lavoro di oggi, in cui sembra tutto cristallizzato e immobile, dico di pensare di più a tutto quello che dovremo, come sindacalisti, fare domani, quando tutto questo sarà finito. Ci sarà da impastare macerie col sudore e con le idee; dovremo ripensare tutto a partire da noi stessi, di come rappresentiamo il lavoro, quello che si perderà e quello che si dovrà creare, di come stiamo nei luoghi di lavoro, alla nostra identità, alla nostra stessa funzione sociale. 

Mentre tutto questo accade senza un ordine preciso nella mia testa, apprendo che Gianluca, amico e compagno, positivo al Coronavirus è ormai a un passo dall’essere dichiarato guarito. Il dare un volto, un nome e cognome, a quello che prima era solo un numero che di giorno in giorno si impennava, è stato per me uno snodo fondamentale. Esiste un prima e dopo Gianluca per me. Un “prima”, in cui mi dichiaravo fatalista, nonostante la mia salute precaria, rifiutavo l’idea della gravità di questa epidemia e un “dopo” in cui ho assunto il peso della responsabilità verso me stesso, verso chi amo, verso chi non conosco. 

Ci portiamo tutti ora sulle spalle il peso di una enorme responsabilità: speriamo che questo peso impariamo fin da subito a condividerlo, altrimenti potrebbe schiacciarci.

Cristian Sesena, coordinatore Area contrattazione e mercato del lavoro della Cgil nazionale