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Stefano Patriarca sapeva, come pochi altri, forse meglio di chiunque altro, trovare, capire, spiegare e collegare i “numeri” dell’economia. Ma non era semplicemente un “tecnico”. Quando nel 1978 approdò in Cgil non vi portava soltanto una brillante qualificazione universitaria, ma un’ormai già lunga storia di militanza politica nel Manifesto e nel Pdup, e soprattutto di impegno e di direzione nel movimento delle Leghe dei giovani disoccupati, delle quali era divenuto il leader a Roma e uno dei leader a livello nazionale. Oggi forse pochi ricordano cosa fu quell’esperienza, ma le Leghe dei giovani disoccupati tracciarono un discrimine politico e sociale tra chi si affacciava nel mondo del lavoro stando dalla parte del movimento operaio e sindacale e quanti intorno al “movimento del ’77” sceglievano il terrorismo o un penoso “né con lo Stato né con le Br”. Stefano era tra le ragazze e i ragazzi che, non sempre ben accolti, portavano nei sindacati un patrimonio di lotte e di consenso sociale. Vale la pena di ricordare il Pdup a causa della sua collocazione, parte della nuova sinistra e tuttavia intransigente difensore della democrazia.
Noi in quegli anni consideravamo l’impegno dalla parte del sindacato e contro il terrorismo parte del nostro essere antifascisti. Sostenevamo la cosiddetta piattaforma dell’Eur, ma ne criticavamo l’interpretazione basata su austerità e sacrifici. Ci consideravamo “terza componente della sinistra”, con il Pci al quale eravamo più vicini, ma anche con il Psi. Per questo coacervo di posizioni (e contraddizioni) oggi difficili da capire e sintetizzare, il contributo di Stefano fu fin da subito, e poi sempre, unitario in Cgil, ma anche con Cisl e Uil. E ciò non era in contraddizione, anzi tutt’altro, con il vedere soprattutto in Bruno Trentin il riferimento principale. Fummo eletti insieme nel direttivo Cgil al Congresso del 1981, appunto “in quota Pdup”, ma quante volte andammo insieme al partito a difendere le scelte del sindacato e la sua autonomia.
Stefano aveva grande passione politica, forti ideali e saldi principi; tra questi, che non si può migliorare la realtà se non la si capisce. Credo che, come Bruno Trentin e Riccardo Lombardi, si considerasse “riformatore” più che “riformista”. I “numeri” li utilizzava per costruire eguaglianza dei diritti, e tante volte alcuni avranno equivocato le sue posizioni perché metteva in guardia da certe rivendicazioni e “conquiste” che, applicate, rischiavano di tradursi nel loro contrario.
Molto rapidamente divenne l’anima e poi il direttore dell’Istituto di ricerche economiche e sociali (l’Ires, l’istituto che superava la vecchia concezione dell’ufficio studi). Da quella posizione ha dato un contributo immenso alla Cgil (e di nuovo: al sindacalismo confederale tutto), divenendo punto di riferimento per tutta l’azione sindacale, acquisendo un prestigio e una notorietà che lo fecero punto di riferimento anche verso l’esterno, per i giornalisti che volevano capire le posizioni del sindacato, ma anche in generale per chi cercava interpretazioni sulle dinamiche economiche.
Tutto ciò gli diede un ruolo preminente nelle trattative con i governi nel periodo difficile della concertazione e della sua crisi, che coincideva con il collasso della prima Repubblica. Dovrebbe essere ricostruita la storia degli accordi dal 10 dicembre del 1991, fortemente voluto da Trentin per aprire la strada che si concluse poi nell’accordo con Ciampi nel 1993, passando però per la drammatica rottura de facto del 1992, con Trentin “tradito” che firmò con Amato proprio per evitare una crisi della democrazia italiana, poi dimettendosi per non aver “rispettato il mandato”. Anche in tutto questo Stefano ebbe un ruolo decisivo, solo in parte pubblicamente noto.
Sarebbe tuttavia sbagliato sottacere che, naturalmente, il successo crea sempre anche difficoltà. Alcuni, soprattutto per attaccare Trentin, rappresentavano Stefano come il simbolo di un’azione sindacale sottratta al controllo democratico, alludendo a un ruolo preminente di una persona non eletta a quella “carica” secondo le normali regole di rappresentanza. Negli anni successivi questo gli costò difficoltà. Soprattutto accadde che la Cgil non riuscì a proporgli una posizione tradizionale di dirigente di una delle strutture congressuali, ciò a cui Stefano sarebbe stato disponibile e interessato (ne parlammo diverse volte), che non disperdesse quel prestigio e quella notorietà che egli giustamente considerava un patrimonio non solo personale. Anche per questo passò a importanti incarichi istituzionali fuori dal sindacato, al servizio del Paese (ruolo che sempre lo aveva ispirato) ma sempre coerentemente dalla parte delle persone che lavorano. Noi perdemmo molto.
Ho letto in questi giorni tanti apprezzamenti, tra i quali anche alcuni di tipo “sarcastico”. No, Stefano era sempre ironico, intransigente sì contro le corbellerie e le sciatterie, ma sempre disponibile e curioso delle persone e delle loro iniziative, giustamente orgoglioso delle sue capacità, mai tuttavia presuntuoso, vendicativo, né banalmente “carrierista”. A me piace ricordarlo come una delle persone che hanno reso migliori il nostro tempo e la nostra generazione.