Mario Paciolla non si è suicidato. Questa è la convinzione di chi lo conosceva, di chi ha letto le carte, osservato gli atti, seguito il caso. E questa convinzione si è trasformata, nel tempo, in una battaglia pubblica che non chiede vendetta, ma verità. Lo scorso sabato 19 luglio, all’interno del Festival Giffoni, è stata organizzata l’iniziativa “Diritto alla verità. Il caso Paciolla” dove hanno partecipato i genitori del cooperante Onu, Anna Motta e Pino Paciolla.

La forza civile della memoria

Dopo la proiezione dell’inchiesta di Fanpage, il confronto, moderato dal direttore di Collettiva Stefano Milani, ha dato voce a chi questa battaglia la vive ogni giorno. I genitori di Mario hanno raccontato la solitudine e la determinazione di chi cerca risposte senza appoggio istituzionale.

Antonio Musella ha ricostruito su Fanpage il percorso giornalistico che lo ha condotto a scavare sotto la superficie della versione ufficiale. Luigi Cannavacciuolo ha richiamato il ruolo della società civile e di Libera, che ha sostenuto la battaglia per la verità fin dall’inizio. E Raffaele Paudice, della segreteria Cgil Napoli e Campania, ha ribadito il senso profondo dell’impegno sindacale: essere accanto a chi è stato lasciato solo, difendere la dignità del lavoro ovunque, anche nei contesti internazionali più fragili.

Cinque anni e nessuna risposta

Mario Paciolla muore il 15 luglio 2020 a San Vicente del Caguán, Colombia. Cooperante per conto delle Nazioni Unite, lavorava come osservatore nel programma di verifica degli accordi di pace tra governo colombiano e Farc. Una missione delicata, in un territorio ancora segnato dalla violenza e dai traffici illegali.

La versione ufficiale parla di suicidio. Ma da subito emergono incongruenze, omissioni, negligenze. L’autopsia colombiana e quella italiana non coincidono. Le testimonianze vengono filtrate, i documenti occultati. I genitori di Mario non si arrendono. E iniziano a chiedere quello che dovrebbe essere scontato: la verità.

Le tre responsabilità

Durante l’incontro, è emersa con forza l’esigenza di indicare con chiarezza le responsabilità ancora inevase. L’Onu ha il dovere di tutelare il proprio personale sul campo e di indagare a fondo quando uno dei suoi collaboratori muore in circostanze sospette.

Lo Stato italiano, dal canto suo, non può limitarsi a dichiarazioni formali: deve agire, pretendere trasparenza dalle autorità colombiane e internazionali, garantire giustizia ai familiari. Infine, anche i media hanno una responsabilità precisa: quella di non archiviare, non dimenticare, non trasformare una morte ingiusta in un trafiletto d’archivio.

Il caso Paciolla riguarda tutti. È una storia di confini che si spostano, tra esterno e interno, tra cooperazione e sfruttamento, tra verità e rimozione. È la storia di un lavoratore della pace abbandonato da chi avrebbe dovuto proteggerlo.

Una giustizia che non può attendere

L’iniziativa si è chiusa con un messaggio semplice e potente: non si può chiedere giustizia a tempo scaduto. Il diritto alla verità è un diritto collettivo, e riguarda anche chi non ha conosciuto Mario, ma condivide con lui l’idea che la pace non sia solo una parola, ma una pratica quotidiana. Finché ci saranno persone disposte a fare domande, a pretendere risposte, a tenere viva la memoria, il caso Paciolla non sarà archiviato.