Chiamata dal Rettore Giordano Dell’Amore durante l’assemblea indetta dal Movimento Studentesco il 23 gennaio 1973 (al Quirinale siede Giovanni Leone, al governo da pochi mesi è tornato Giulio Andreotti), la polizia spara ad altezza d’uomo all’Università Bocconi di Milano colpendo alle spalle, mentre fuggono, l’operaio Roberto Piacentini e lo studente Roberto Franceschi (20 anni) che rimarrà in coma e morirà il 30 gennaio.

Il 3 febbraio una folla immensa e silenziosa partecipa ai funerali del giovane studente ucciso.

Oltre ai familiari e agli amici, ci sono anche l’allora sindaco ed ex partigiano Aldo Aniasi; il presidente della Camera e futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini e il giovane dirigente socialista Bettino Craxi. Ci sono gli operai, i partiti e i sindacati, una folla silenziosa e commossa, come riporteranno i quotidiani dell’epoca.

“Tutti devono morire - recita il pensiero di Mao scritto su di un foglio affisso a una parete - ma non tutte le morti hanno uguale valore. La morte di alcuni ha più peso del monte Tai”.

“Era un compagno, era un combattente per il Socialismo e per la Libertà: per questo il governo un plotone mandò e un sicario alle spalle sparò”. E’ la prima strofa della canzone che la commissione musicale del Movimento Studentesco scrisse nel 1973 per ricordare la morte di Roberto.

“Era estremamente duro contro la superficialità - diceva di lui un compagno di studi - la faciloneria, il disprezzo per la cultura e la scienza: Egli era convinto che un'attività politica non sorretta da una seria e continua analisi della situazione è sterile e cieca, per questo rifiutava la contrapposizione radicale tra politica e studio ritenendoli complementari: l’una stimola l’altro e viceversa. Ricercare lo studio facile per poter fare “politica” è il peggior servizio che un militante può offrire alla causa del socialismo. Roberto, la sua ferrea volontà, la sua onestà intellettuale, la sua incrollabile fede nella scienza, la sua costante ricerca della verità, il suo amore per la cultura, la sua illimitata fiducia nelle possibilità dell’uomo, dopo la sua morte, hanno aiutato me e molti altri compagni a superare le difficoltà, a correggere gli errori e ad andar avanti”.

Andare avanti, una prospettiva difficile, se non impossibile, per mamma Lydia Buticchi, staffetta partigiana e insegnante, una madre che perde un figlio e lotta per la giustizia, anche quando dietro la giustizia si nasconde lo Stato.

“Col sangue di Roberto ancora fresco sul marciapiede - dirà - erano già in atto, come una consuetudine, le manomissioni e i depistaggi. Una schiera di bugie divise per gradi e conoscenza parziale dei fatti, così che nessuno potesse sapere precisamente la menzogna altrui. Una mano spara, tutti la proteggono: lo chiamano spirito di corpo. A ciascuno un pezzetto”.

Lydia dedicherà la seconda parte della vita a ottenere verità e giustizia per la morte del figlio, decidendo con il marito Mario, la figlia Cristina e l’avvocato Marco Janni, nel 1996 di utilizzare il risarcimento ricevuto dal Ministero dell’Interno per dare vita a una Fondazione no profit che desse continuità ai suoi ideali e valori.

“La Fondazione - scriveva nel 2013 - con i suoi progetti mi ha permesso di continuare ad avere un rapporto con gli studenti e con gli insegnanti dove ho potuto testimoniare il mio tempo e l’impegno di Roberto contro lo sfruttamento, l’oppressione per lo sviluppo della democrazia e della giustizia e del suo rapporto intenso con la cultura che non ammetteva quelle forme di contestazione della scuola che si traducevano nel rifiuto dello studio a vantaggio di una militanza politica”.

“La rabbia - diceva a caldo nel 1973 con il marito Mario - è un sentimento al quale il dolore non lascia molto spazio. Ma essa cresce col passare dei giorni e accompagna il nostro disperato sforzo di dare ancora un senso a questa vita. Dopo la severa e commovente partecipazione di tanti giovani al funerale di Roberto, preceduta e seguita da continue manifestazioni di affetto e conforto verso di noi, abbiamo sentito che potevamo ancora accettare con qualche serenità i giorni che ci restano solo coltivando nella coscienza e nel cuore gli ideali cui Roberto aveva scelto di dedicare la sua vita, solo vedendoli riflessi nella vita di nostra figlia e di migliaia di altri giovani, solo offrendo alla memoria la nostra volontà di farla rispettare. (…) Noi parliamo di ideali, Roberto avrebbe detto lotta di classe. Vorremmo poter dire che abbiamo ragione anche noi, che una società democratica si distingue per gli ideali, o i principi, che persegue e realizza nell’interesse di tutti malgrado il conflitto delle classi. Uno di essi è la giustizia. Tragica giustizia, per noi, ma essenziale per la società e i giovani che crescono in essa. Quello che accade negli uffici della magistratura ci smentisce, ci dà torto. La classe di governo si regge sulle forze di polizia, ne è protetta e la protegge, offre loro l’impunità. E viola le regole del gioco, anche le più elementari, per non mancare alla promessa. Il dolore è nostro, ma la verità appartiene a tutti”.

La verità appartiene a tutti. 

A tutte e a tutti quelli che - negli anni - tante, troppe volte sono stati costretti a chiedersi “Chi è Stato?”.