Lidia Brisca, meglio nota come Lidia Menapace, nasce a Novara il 3 aprile 1924. Giovanissima prende parte alla Resistenza e nel dopoguerra si impegna nei movimenti cattolici, in particolare con la Fuci - Federazione Universitaria Cattolica Italiana. Nel 1952 si trasferisce in Alto Adige e nel 1964 è la prima donna eletta nel consiglio provinciale di Bolzano insieme a Waltraud Gebert Deeg. In quella stessa legislatura è anche la prima donna a entrare nella giunta provinciale, come assessora effettiva per gli Affari Sociali e la Sanità.

All’inizio degli anni Sessanta inizia ad insegnare all’Università cattolica del Sacro Cuore con l’incarico di lettrice di lingua italiana e metodologia degli studi letterari, incarico che durante il Sessantotto non le viene rinnovato a seguito della pubblicazione di un documento intitolato Per una scelta marxista.

Dopo essere uscita dalla Democrazia cristiana, simpatizza per il Partito comunista e nel 1969 viene chiamata dai fondatori nel primo nucleo de Il Manifesto. Membro di Rifondazione comunista fin dalla fondazione, nelle elezioni politiche del 2006 verrà eletta al Senato. Terminato l’impegno parlamentare entra nel Comitato nazionale nell’Anpi. “Chiamatemi ex politica - era solita dire - ex parlamentare, ex insegnante, ma non chiamatemi mai ex partigiana. Perché io partigiana lo sarò per sempre”. 

Piccola ma solo di statura, mai arrendevole, Lidia è stata una di quelle splendide donne alle quali noi, giovani e meno giovani compagne, dobbiamo tanto. È stata la prima a mettere l’accento sull’importanza del linguaggio sessuato come strumento fondamentale contro il sessismo. Ci ha regalato la definizione più suggestiva del movimento delle donne definendolo ‘carsico’ come un fiume che talvolta sprofonda nelle viscere della terra per riapparire in luoghi e tempi imprevisti con rinnovata potenza.

Suo è lo slogan - attuale mai come oggi - “Fuori la guerra dalla storia”, sua la proposta di una Convenzione permanente di donne contro tutte le guerre. 

Non so nemmeno più quando incominciai ad essere interessata al tema della pace - scriveva nel proprio libro autobiografico edito nel 2015, Canta il merlo sul frumento. Il romanzo della mia vita - ma certo presto, perché nelle discussioni e nei convegni, negli incontri e nei dibattiti intorno al ’50 e poi via via in ogni occasione nei decenni successivi sempre illustravo come massimamente innovativo l’art. 11 della Costituzione, che appunto ripudia la guerra (…) Costruire la pace in ogni modo è la maniera migliore di “ripudiare” (un verbo molto forte) la guerra. (…) Sono sempre dell’opinione che ripudiare la guerra e quindi avere una politica estera favorevole alla trattativa e ridurre le spese per gli armamenti siano le migliori prevenzioni della catastrofe bellica, opinione che la diffusione delle armi di distruzione di massa non fa che confermare. Di ciò ero convinta da subito, già da quegli anni immediatamente postbellici, e infatti scrissi un articolo subito dopo il lancio della prima atomica sul Giappone, che presentai all’ufficio della censura americana a Novara (allora, come tutto il Paese, sotto l’occupazione dei vincitori della guerra). Scrivevo che l’atomica buttata sui civili di un Paese vinto e che stava trattando la resa e la pace “ci mette alla pari coi nazisti”. Fu rifiutato perché “non c’era spazio” e alla mia proposta di passarlo l’indomani dissero: “Domani ci saranno altre notizie”. Imparai che cosa è la “censura democratica”. Oggi si dice (e non è una battuta di umorismo nero) che gli arsenali atomici contengono armi tante da poter distruggere undici volte il pianeta, che è la definizione stessa di follia, quella che nel sonno della ragione genera mostri. Negli anni a cavallo dell’80 esplose il pacifismo, e io ero sempre presente. Stavo nell’organizzazione e nella promozione di tutte le marce per la pace, le manifestazioni, gli eventi: è mio il motto “Fuori la guerra dalla storia”, lo slogan più presente in quegli anni. Volevo che la guerra non fosse una continuazione della politica con altri mezzi. Per questo cercai di liberare il linguaggio politico dal linguaggio di guerra: da “militanza” a “impegno” e da “non violenza” ad “azione non violenta” (…).

“Mi sembra di poter rivolgere agli uomini un caldo appello - aggiungeva Lidia - perché finalmente vadano oltre il loro triste, monotono, insopportabile simbolico di guerra, che trasforma tutto in militare: l’amore diventa conquista, la scuola caserma, l’ospedale guardia e reparti, la politica tattica, strategia e schieramento. In questo modo non si va oltre lo scontro fisico in uniforme ed è chiaro che la parte non bellicosa della popolazione non partecipa, il movimento diventa sempre più militarizzato, e si va incontro a un sicuro insuccesso: i poteri forti si rafforzano sulla nostra stupidità. Nella storia dei movimenti di lotta vi sono altre forme: il movimento sindacale e operaio elaborò, ed usa, nella sua lunga vicenda, tutte le forme dell’azione nonviolenta come assemblee, petizioni, scioperi, manifestazioni pacifiche, picchetti e infine sabotaggi. Il movimento femminista, fin dai tempi delle suffragiste, ha trovato altri strumenti ancora per mostrare dissenso, contrasto e agire il conflitto: manifestazioni, grafica, sit-in, musica, resistenza passiva, training autogeno, danza, sarcasmo, canti, visibilità dei corpi nella loro varietà inerme, tutto il molteplice possibile, niente di uniforme o in uniforme”.

 

“Continuo ancora oggi a essere affascinata - concludeva - dall’idea che la storia umana può continuare senza guerra”.

 

Come si fa a non essere d’accordo?