Quello che succede nella trincea della guerra contro il coronavirus, nei Pronto Soccorso degli ospedali, possono raccontarlo soltanto loro, i medici, gli infermieri, il personale sanitario. Lavoratori che con coraggio, professionalità e abnegazione continuano a fare la loro parte, a dispetto delle condizioni in cui si trovano costretti ad operare. Un giorno, quando quello che stiamo vivendo sarà passato, chi ha continuato a usare il Sistema sanitario nazionale come un bancomat, tagliando, senza alcun ritegno e senso di responsabilità, gli investimenti nel settore, dovrà rispondere dello stato di difficoltà, in termini di mancanza di personale e risorse, nel quale ci siamo fatti trovare allo scoppio dell’emergenza da Covid-19.

Uno stato di difficoltà denunciato, senza mezzi termini, in questo memoriale, scritto da lavoratori di un’Unità di Pronto Soccorso della provincia di Bergamo, che, come sottolinea correttamente la premessa, “non ha la pretesa di essere esaustivo, vuole contribuire ad offrire un quadro, sebbene parziale ed in costante divenire, delle difficoltà umane, logistiche ed operative che gli operatori sanitari di un Pronto Soccorso della provincia di Bergamo affrontano ogni giorno”.

Il memoriale è stato sottoposto alla nostra attenzione dal segretario generale della Funzione Pubblica Cgil bergamasca, Roberto Rossi. In cinque punti vi raccontiamo le criticità che si trovano ad affrontare i lavoratori di questo Pronto Soccorso: l’assenza di una zona filtro per la valutazione dei pazienti con sintomi aspecifici ma comuni a Covid-19; il numero limitato di operatori ai quali sono garantiti i dispositivi di protezione individuale,  senza che venga prevista la sostituzione dei dispositivi durante il turno, con pesanti ricadute sulle condizioni di lavoro, finanche l’impossibilità di bere per ore; la trasformazione di intere aree del Pronto Soccorso in zone di isolamento, pur in assenza dei requisiti strutturali per essere tali; la mancanza di un momento di condivisione e confronto ufficiale con l’Azienda sulle procedure operative; il prolungamento dei turni fino a 12 ore.

Entriamo in questo Pronto Soccorso della provincia di Bergamo, a pochi chilometri dalla zona rossa, e ripercorriamo quello che è successo dall’inizio della crisi a oggi, per capire “le difficoltà umane, logistiche ed operative che gli operatori sanitari affrontano ogni giorno”.

Carenza di dispositivi di protezione individuale

I numeri sono impietosi, ricostruendo il diario della crisi sanitaria. Si parla di una fase iniziale dell’emergenza in cui la struttura era estremamente carente di Dispositivi di Protezione Individuale e non c’erano chiare indicazioni sul loro utilizzo. “Le famose maschere FFP2 (monouso e non riutilizzabili) erano complessivamente 5, due o tre le confezioni di mascherine chirurgiche. Il 22 febbraio, in seguito all’esplosione del focolaio nel lodigiano, gli operatori in servizio al triage (il front desk di un ospedale, dove il personale è a diretto contatto con l’utenza) decidono di indossare autonomamente le maschere FFP2, indicate per il contatto con paziente sospetto o confermato Covid-19 e vengono “ripresi” dalla direzione sanitaria che prescrive l’utilizzo delle mascherine chirurgiche per tutti gli operatori, delle FFP2 soltanto in presenza di contatto con paziente sospetto. Ma come potrebbe un operatore del triage sapere preventivamente, prima del triage stesso, se il paziente che sta valutando sia sospetto o meno? – si chiedono nel memoriale –”.   

Nei giorni successivi la disponibilità di dispositivi di protezione aumenta. “Adesso tutti gli operatori del Pronto Soccorso sono tenuti a indossare la maschera chirurgica, mentre la maschera FFP2 viene indossata dagli operatori del triage e da un unico operatore in servizio negli ambulatori che assiste, insieme al medico, i casi sospetti o confermati nelle due aree destinate all’isolamento. Le maschere FFP2 non sono quindi indossate da tutti gli operatori, ma messe a disposizione secondo criteri stringenti, per cui si presume persista una carenza di tali dispositivi”. La carenza, intrecciandosi con l’emergenza, porta a una situazione paradossale: nelle unità di degenza (dove non dovrebbero esserci pazienti Covid-19) sono stati letteralmente requisiti tutti i DPI per cui anche la maschera chirurgica standard è difficilissima da reperire”. Ma l’emergenza non si ferma qui. Subito dopo, ecco un’altra denuncia gravissima: “Sebbene le nuove indicazioni ministeriali del 3 marzo sul corretto utilizzo dei DPI, contrariamente alle precedenti disposizioni, reputino sufficiente l’utilizzo della maschera chirurgica, del camice idrorepellente e delle visiera nell’assistenza al paziente positivo per Covid-19, abbiamo una tale scarsità di dispositivi che il camice monouso viene riutilizzato per più pazienti, nonostante dovrebbe essere sostituito dopo il contatto con il singolo assistito”.

Linee operative disattese

Anche sulle procedure ci sono molti dubbi. In linea teorica, sulla base del diagramma di flusso identificato dalla Direzione Sanitaria lo scorso 24 febbraio, i pazienti sospetti o confermati Covid-19 non dovrebbero transitare per il Pronto Soccorso, ma seguire un percorso a parte con destinazione diretta ai “reparti infettivi”. Ma come è possibile garantire una misura di questo tipo – si chiedono nel memoriale –, quando gli stessi pazienti si presentano direttamente al triage perché lamentano altri problemi di salute. Problemi che, apparentemente, non rientrano nei criteri individuati per il caso sospetto e diventano tali soltanto in un secondo momento, dopo una più approfondita valutazione clinico-strumentale? L’operatore del triage, a quel punto, li ha già assistiti e valutati senza indossare gli adeguati dispositivi di protezione individuale e si è, quindi, già esposto al rischio di contagio. Una situazione che si è già verificata almeno in due casi accertati. Nei quali gli operatori sono stati prima posti in quarantena domiciliare in attesa del tampone, poi richiamati al lavoro, dopo soli due giorni, per esigenze di servizio, pur persistendo l’indicazione all’isolamento fiduciario. “Pare – si legge sul memoriale – che ora il tampone non venga più effettuato agli operatori venuti in contatto con casi sospetti, in assenza di sintomi conclamati.  Questo accade nonostante siano diversi i casi di medici e infermieri dell’Azienda Socio Sanitaria Territoriale sintomatici e risultati positivi al tampone”.

L’afflusso record di pazienti

Ma la situazione più critica si sta presentando in questi giorni. L’afflusso record di pazienti con sintomi respiratori sospetti per infezione da coronavirus sta mettendo seriamente in crisi la struttura ospedaliera. Ad oggi il diagramma di flusso descritto sopra per la gestione dell’emergenza è completamente disatteso. “L’istruzione operativa che prevede che i pazienti sospetti o confermati non debbano transitare in Pronto Soccorso ma accedere direttamente ai reparti destinati agli infettivi è contraddetta costantemente dalla necessità di far fronte ad un numero crescente di accessi dal territorio o trasportati dai mezzi di soccorso di base. Di volta in volta un’area del pronto soccorso si trasforma in “zona infettivi” con pesanti ricadute in termini di sicurezza, qualità assistenziale e tempi di attesa per i pazienti che accedono per altri problemi di salute”.

“L’Osservazione Breve Intensiva, priva di qualsiasi requisito strutturale per essere tale, è stata trasformata in zona di isolamento – si legge nel documento –. Un’area aperta, adiacente all’ambulatorio internistico e con sei posti letto a distanza di poco più di un metro l’uno dall’altro, è stata dedicata al ricovero di sei pazienti con sintomi respiratori severi, sospetti per Covid-19. Altri pazienti sono stati isolati nel corridoio adiacente ai servizi igienici degli ambulatori per esterni”.

I turni sono saltati, si lavora senza sosta

Una situazione che sta creando pesanti ricadute in termini di condizioni di lavoro: “Saltano i riposi, i turni si fanno sempre più lunghi e le pause non vengono rispettate. Gli operatori che indossano le maschere FFP2 hanno l’indicazione di non rimuoverle per tutta la durata del turno (in tal caso andrebbe sostituita… ma mancano!) quindi non possono fruire della pausa mensa e nemmeno bere durante il turno!”.

Dal merito al metodo, la denuncia si aggrava. “Sulle Istruzioni Operative e il Diagramma di Flusso prodotti dall’Azienda per la gestione dell’emergenza non c’è stato alcun momento di condivisione comune e di riunione con tutti gli operatori”, che pure avvertono la necessità di dire la loro sulla gestione operativa e hanno dubbi da dirimere.

“Gli operatori di Pronto Soccorso – si legge nelle conclusioni del memoriale – sono costantemente in prima linea per garantire cure e la migliore assistenza possibile ai problemi di salute dei cittadini. Questo ogni giorno e ancora di più in una fase emergenziale come questa. Si avverte quindi il bisogno di mettere nero su bianco criticità e carenze, non con spirito polemico, ma perché crediamo che prima di tutto sia una necessità tutelare la sicurezza degli infermieri e dei medici impegnati in questi giorni nell’emergenza. Dobbiamo essere messi nella condizione di poter operare correttamente per salvaguardare la nostra salute, quella dei nostri famigliari e quella dei pazienti con i quali veniamo quotidianamente in contatto”.   

Eccolo, il dispaccio dalla trincea. Di sentinelle che – quando la situazione glielo consente, sempre più raramente – tornano a casa con il terrore di portarsi dietro il virus. In un Paese che ha sospeso, di fatto, per decreto, assembramenti e meeting di lavoro, il loro pane quotidiano è quello di trovarsi faccia a faccia con chiunque sospetti di aver contratto la malattia. Ricordiamoci di loro, quando tutto, si spera, sarà finito. Lavoratori che hanno combattuto per anni insieme al sindacato, per vedersi riconosciuto un rinnovo contrattuale – molti di loro, della sanità privata, ormai precettata sul fronte dell’emergenza, ancora non ci sono neanche arrivati. Lavoratori che da anni si portano dietro lo stigma dei fannulloni, perché, dice e pensa una parte di mondo, “siete statali e qualunque cosa facciate non perdete il posto”. Lavoratori che da anni subiscono o rischiano di subire aggressioni di pazienti e familiari esasperati da disservizi che non sono imputabili a loro, al personale sanitario, ma alla dissennata politica dei continui tagli alla spesa pubblica. Lavoratori in molti casi precari, che rischiano in prima persona aspettando una stabilizzazione. Che sentono politici parlare di richiamare i pensionati in servizio, quando i sindacati da anni denunciano la carenza di personale, la necessità di centinaia di migliaia di nuove assunzioni e ricordano a tutti la sentenza di Strasburgo che ha condannato il nostro Paese a far rispettare i turni di riposo, continuamente disattesi per tamponare una situazione che era al collasso ben prima del coronavirus.

Sono esseri umani, padri e madri, che con le scuole chiuse, a differenza della maggior parte di noi, non potranno prendere ferie e permessi, ma dovranno, se possibile, allungare i propri turni. Sono la parte più coraggiosa, la parte migliore di questa società infettata.