L’edilizia è un settore molto particolare della società: prima di tutto perché è quello che risponde alla prima esigenza umana, una casa, ma perché, proprio per questo, è anche quello più sensibile ai mutamenti storici. Solo fino a 100 anni fa la maggioranza della gente viveva isolata in campagna, oggi vive nelle affollate zone urbane di immense città. E proprio questi centri abitativi sono quelli che producono la più alta percentuale di guasti ambientali e sono, dunque, il punto focale della indispensabile transizione energetica.

Per tutte queste ragioni gli edili sono investiti più di qualsiasi altro settore dal problema di come far fronte ai mutamenti storici. Che oggi non comportano qualche aggiustamento, ma un mutamento epocale, sul quale, piaccia o no, gli edili hanno un ruolo storico da giocare. Per fortuna, vostra e del resto degli umani, ho constatato che - a stare a quanto si dice nel Manifesto delle lavoratrici e dei lavoratori della costruzione presentato all’Assemblea generale della Fillea del 15 giugno scorso - il vostro sindacato ha ben capito, a differenza di molti pur collocati in posizioni di grande potere istituzionale, la dimensione del mutamento epocale in atto. E dimostra di volere, e sapere, assumere con la serietà dovuta la responsabilità che le compete. Ed infatti il documento si conclude con una presa d’atto impegnativa: “le disuguaglianze sociali, ambientali, politiche - è scritto - sono giunte a un livello tale che una piccola rivoluzione è ormai inevitabile”.
 
Era un po’ di tempo che la parola “rivoluzione”, pur accompagnata dall’aggettivo “piccola”, non veniva più nominata. Ma non era perché non ce ne fosse più bisogno, ma solo perché la peggior sconfitta subita negli ultimi decenni da chi in questo mondo non ce la fa a vivere decentemente, è l’aver perduto la fiducia di poterlo cambiare.   A chi invece questo mondo va bene così, è riuscito infatti di render egemone il concetto cui gli anglosassoni hanno persino dato un nome ormai molto in voga: THINA, in inglese “there is no alternative”, in italiano “non c’è alternativa”.

Tutt’al più cercano di far passare l’idea che sarebbe possibile tornare indietro, al bel tempo passato, il cosiddetto trentennio felice in cui il grande boom industriale scoppiato fra gli anni’50 e ’70 aveva consentito, ma solo in occidente, l’affermarsi di un compromesso sociale relativamente equo, tale da consentire i margini per quelle riforme sociali che i lavoratori, sia pure grazie a lotte molto aspre, erano riusciti ad ottenere. Quello, insomma, che ha fatto star un po’ meglio nonni e padri, ma poi, non più, i figli.
Tornare al passato, però non è possibile, perché il mondo è nel frattempo cambiato profondamente. 

Quel processo di industrializzazione crescente che ha costituito la gloria del capitalismo ha manifestato infatti tutti i suoi limiti: non ce la fa a espandersi in tutto il globo, e anzi crea una miseria senza precedenti in interi continenti come l’ondata crescente di immigrazioni dimostra; e produce disuguaglianze enormi anche nello stesso, privilegiato Occidente. A questo si aggiunge la scoperta di esser arrivati a una soglia invalicabile dello sfruttamento della natura, per cui un modello fondato sulla moltiplicazione indiscriminata di merci, di terra cementificata, e di emissioni mortali non è più possibile.

Non solo: questi limiti inderogabili hanno acuito la competizione internazionale, sempre più sregolata per via di una globalizzazione che premia il più forte e non l’obiettivo di una società complessivamente più equa. Così aprendo la strada a uno scontro per il controllo del mondo che, date le nuove tecnologie militari – il nucleare sta ormai anche nelle armi a medio raggio usate da ragazzi, non più solo nelle “brave” bombe di un tempo – può portare a una catastrofe senza precedenti.  Innescata magari dalla sola pretesa di accaparrarsi una delle 17 materie prime preziose fra le quali quella necessaria a fare i microchips o le batterie elettriche.

Questo esito ha un nome: il capitalismo moderno è entrato in crisi, e per sopravvivere ha per prima cosa puntato a ridurre, e persino a cancellare, proprio quelle riforme cui aveva potuto ricorrere per far fronte alle grandi lotte degli anni ’60 e ’70, quelle che avevano reso possibile stabilire il compromesso sociale. “Troppe lotte si sono sviluppate in questi ultimi anni – si legge nel Manifesto reso pubblico dalla Trilateral (l’organismo creato dal banchiere Rockfeller e dal consigliere del presidente Reagan, Kissinger, fondato a Tokio nel 1971 dai tre blocchi dell’Occidente, cioè USA, Europa, Giappone) – il sistema non se lo può permettere”. Di lì la controffensiva, coronata subito dalla emblematica sconfitta alla Fiat nel 1980, e quella clamorosa imposta dalla Thatcher ai minatori del suo paese. Come usciamo da questo ormai lungo periodo di arretramenti? Come possiamo impedire che le difficoltà che incontrano i potenti per via della crisi del loro sistema vengano superate ricorrendo, come stanno già facendo, alla violenza sociale e alla guerra? Credo che non ci sia altra scelta se non quella di passare anche noi all’offensiva, smettendo di illuderci che si possa tornare ad un passato che lo stadio attuale del capitalismo, non può più consentire. Quel modello lo dobbiamo cambiare, e cominciare a progettare un sistema diverso, una società postcapitalista che ci salvi dalla catastrofe: questo è il senso di quella “terribile” parola che è stata scritta nel Manifesto della Fillea: rivoluzione.

Le rivoluzioni sono state tutte una diversa dall’altra, e per ora nessuna - né quella francese del 1789 né quella russa del 1917 - è riuscita ad ottenere quello che voleva: la prima ha dato più libertà ma nessuna uguaglianza, la seconda per dare l’uguaglianza ha schiacciato la libertà. La nostra deve riuscire a mettere insieme le due conquiste che sono rimaste mutilate dalla loro separazione: eguaglianza e libertà. Rinunciarci sarebbe vergognoso

Una rivoluzione, a differenza di una barbara dittatura che in momenti come questi è minaccia reale, è più difficile che nel passato, anche solo da far decollare. Non basterebbe occupare la Bastiglia o il Palazzo d’Inverno degli Zar, nel nostro equivalente Palazzo Chigi. Non troveremo quasi niente (magari solo La Russa su una sedia). Il potere vero con la globalizzazione non solo è oggi diffuso, è diventato anche invisibile. Gramsci ce l’aveva detto già 100 anni fa a proposito delle società capitalistiche avanzate. Riprendere il controllo dei nostri destini togliendolo dalle mani del cieco pilota chiamato mercato, vuol dire innescare un processo lungo che cambi via via la società e riconquisti la gestione di pezzi crescenti della nostra vita, oggi alla mercè di privati che mirano al loro profitto o ad un’amministrazione statale che non controlliamo. 

E questo intrecciando la democrazia delegata che ci ha dato il voto con spazi di democrazia diretta gestiti da nuove stabili forme di partecipazione, affinché il potere decisionale non sia più solo nelle mani dei privati ma nemmeno in quelle dello Stato. Che siano cioè gestite in comune, a partire da beni sempre più comuni. In termini pratici vuol dire – così ho inteso la proposta delle Consulte Urbane - innanzitutto aggregare le forze, far rete sul territorio dove operiamo con chi come la Fillea sa di dover innanzitutto trasformare i centri urbani: affinché diventino anziché luoghi di avvelenamento, produttori di nuove energie pulite; con chi sa che occorre  ripensare  il tessuto abitativo sì da consentire a ciascuno di non doversi spostare per km per andare in un ufficio pubblico, un ospedale o un teatro (la “città di 15 minuti” la chiama la sindaca di Parigi); con chi si rende conto che bisogna scovare spazi nei grandi complessi immobiliari esistenti per servizi collettivi per i bambini, i vecchi, i malati, tutto ciò che serve a scaricare dalle  spalle delle donne il peso della cura, per dare ai giovani posti dove incontrarsi che non  siano solo le discoteche. E che occorre anche creare rapporti con la campagna, introducendo orti e giardini, e recuperare l’acqua che si perde, riutilizzare i rifiuti.

Per gli edili tutto questo significa non proseguire nella mortale cementificazione e invece rammendare e inventare, quindi anche ripensare il proprio modo di lavorare che forse oggi andrebbe reinventato per dar vita a piccole cooperative di lavoratori, capaci tutte di usare le nuove tecnologie. Che oggi se usate per la collettività e non per accrescere il potere di pochi, consentirebbero a tutti di lavorare molto di meno. 

Negli anni ’70 questo nelle fabbriche si chiamava “pratica dell’obbiettivo” e cioè fare e non solo chiedere che si faccia. L’indicazione della Cgil di fare “il sindacato di strada”, e cioè di ricreare quella rete collettiva che sono state un tempo quel prezioso organismo che si chiamava Camere del lavoro, oggi prive, dove ancora esistono, del ruolo che avevano esercitato decenni fa. Significa ritrovarsi, edili, femministe, studenti, pensionati, urbanisti per lavorare assieme nella nuova associazione creata da Fillea e Spi e a cui, se ho capito bene, tra poco dovrebbe entrare anche la Cgil Nazionale: ”Nuove Ri-Generazioni”.

Non si tratta solo di cambiare il modo di lavorare, significa fare non una piccola ma una grande rivoluzione culturale, per convincere che la felicità non sta nella moltiplicazione di merci superflue, ma nel costruire una società dove il lavoro non sia più fatica ossessiva, dove ospedali, scuole, assistenza, servizi  efficienti e sufficienti diventino la priorità degli investimenti. Una diversa felicità, insomma. Quella che Marx invocava per il futuro, in cui anche il lavoro umano sarebbe stato liberato: non più merce - forza lavoro venduta e comprata - ma libera attività umana.  Non vi pare che del progetto di cambiare il mondo - che ha portato le generazioni passate a impegnarsi nella politica e anche a combattere nella Resistenza - oggi dovremmo almeno ricominciare a discuterne? Prendiamo dunque sul serio il Manifesto dell’Assemblea della Fillea.  

Rigeneriamo la città, il lavoro, la democrazia: questo è il titolo del "manifesto" approvato il 15 giugno dall'Assemblea Generale della Fillea, che prevede un percorso di iniziative, approfondimenti, confronto a tutto tondo sui temi della sostenibilità.

SCARICA IL MANIFESTO PER LA GIUSTA TRANSIZIONE