Verso le 17 del 22 luglio 1970, all’inizio della rivolta del Boia chi molla e meno di un anno dopo la strage di Piazza Fontana, nei pressi della stazione di Gioia Tauro, deraglia il treno Freccia del Sud diretto da Palermo a Torino provocando la morte di sei persone (Rita Cacicia, Rosa Fassari, Andrea Gangemi, Nicoletta Mazzocchio, Letizia Concetta Palumbo e Adriana Maria Vassallo) e il ferimento di altre 70 circa. Sul treno del Sole ci sono duecento passeggeri. Lavoratori pendolari che tornano su dopo un soggiorno in famiglia, un gruppo di pellegrini diretto a Lourdes, viaggiatori occasionali. La scena che si presenta agli occhi dei soccorritori è tragica: alcuni vagoni sono schiacciati tra loro e le manovre di soccorso sono rese ancora più faticose dal forte caldo. Molti sono incastrati tra le lamiere, altri riescono ad uscire dal groviglio di ferro dai finestrini.

Nella prima fase delle indagini, si ritenne che il fatto fosse stato dovuto al cedimento strutturale di un carrello del treno; più tardi, alla negligenza del personale che era alla sua guida. Solo molti anni dopo sentenze definitive accerteranno che si era invece trattato di un attentato dinamitardo. “Un mistero dimenticato - lo definirà Carlo Lucarelli - Talmente oscuro, talmente misterioso, che per tanto tempo nessuno ne ha saputo niente, dissolto quasi, coperto dalle nebbie nere di tanti altri grandi Misteri d’Italia”. In realtà l’ipotesi dell’attentato viene avanzata e sostenuta dalla maggior parte della stampa nazionale: il giornalista Mario Righetti del Corriere della sera sostiene questa tesi dopo soli tre giorni, presto supportato anche da altre testate (su l’Avanti addirittura si arrivò a citare il presunto rinvenimento di altro esplosivo, il 7 agosto).

Anche Gianni Aricò, Angelo Casile, Franco Scordo, Luigi Lo Celso e Annalise Borth, età media 22 anni, sembrano aver capito tutto sulla matrice nera non solo dell’attentato, ma della rivolta nel suo complesso. Il 26 settembre del 1970, poco più di due mesi dopo l’attentato, partono per Roma con la Mini Minor carica di documenti. Li aspettano i compagni anarchici della capitale, li aspetta l’avvocato Edoardo Di Giovanni. A Roma, però, gli ‘anarchici della baracca’ (già testimoni fra l’altro a favore di Pietro Valpreda - che fu anche il tramite dell' incontro tra Annalise Borth e Gianni Aricò - nell’inchiesta su Piazza Fontana) non arriveranno mai. Si schianteranno sull’autostrada tra Ferentino e Frosinone, a 58 chilometri dalla capitale, contro un camion parcheggiato sul ciglio della strada. I magistrati di Frosinone propenderanno per una disgrazia, eppure lo stato in cui viene ritrovata la Mini minor fa pensare alla presenza di un terzo veicolo. Casile, Scordo e Lo Celso - seduti nel sedile posteriore - muoiono sul colpo. Aricò, che si trovava alla guida, ventiquattro ore dopo. Sua moglie Annalise Borth, diciannovenne tedesca di Amburgo, alla fine di un’ agonia durata venti giorni. Martedì 29 settembre 1970 si svolgeranno a Reggio Calabria i funerali di Angelo Casile, Francesco Scordo e Gianni Aricò, mentre le esequie di Lo Celso si terranno contemporaneamente a Cosenza.

“Un tragico incidente stradale ha stroncato la vita dei giovani anarchici Giovanni Aricò, Angelo Casile, Luigi Lo Celso, Francesco Scordo - recitava un manifesto a lutto di anarchici reggini - Manifestiamo la nostra profonda ammirazione e gratitudine verso questi compagni che, animati da sublimi ideali, hanno dedicato la loro breve esistenza lottando tenacemente contro ogni forma di ingiustizia sociale in un continuo anelito di libertà e di amore verso i poveri, gli umili e gli sfruttati”. "Abbiamo scoperto cose che faranno tremare l’Italia", aveva confidato Gianni Aricò alla madre pochi giorni prima di morire. "È meglio che non faccia partire tuo figlio", aveva detto un amico poliziotto al padre di Lo Celso, la sera prima della partenza.

Nel 1993 i collaboratori di giustizia Giacomo Lauro e Carmine Dominici confermeranno al giudice istruttore milanese Guido Salvini la presunta collusione tra ambienti d’estrema destra e ‘ndrangheta, sostenendo la diretta responsabilità di questi nei fatti di Reggio e nell’attentato di Gioia Tauro. “Personalmente - dirà Carmine Dominici - ritengo che quello dei cinque ragazzi non sia stato un incidente ma un omicidio. E tale opinione è condivisa anche da altri militanti avanguardisti. Non sono assolutamente in grado di indicare chi potrebbe aver preso parte alla presunta azione omicidiaria e, peraltro, era illogico che ci si rivolgesse a militanti calabresi in quanto ciò avrebbe comportato un pericoloso spostamento geografico”. “Sono convinto - aggiungerà il procuratore Salvo Boemi nel 2001 - che quei cinque giovani avessero trovato dei documenti importanti. Non riesco a spiegarmi in altro modo la sparizione di tutte le carte che si trasportavano nella loro utilitaria. È un caso che avrei desiderato approfondire (...) ma esistono insormontabili problemi di competenza”.

Documenti importanti che probabilmente avrebbero consentito, se consegnati a chi di competenza, di ricostruire una catena di comando che da Reggio Calabria conduceva fino a Roma, fino al disegno golpista del principe Junio Valerio Borghese. Che avrebbero consentito, forse, di fare luce su di un’altra strage destinata a restare impunita. E non solo per il tanto tempo trascorso. “Riaprire l’inchiesta? - aggiungeva Boemi - L’unica speranza è che, trent’anni dopo, chi sa decida di parlare. Ma, onestamente, non ci credo”. Noi, invece, ci crediamo ancora.